Papa Francesco ridisegna il collegio cardinalizio
di Paolo Fucili
E’ lo stanco ritornello che ogni frequentatore neppure troppo assiduo di sagrestie, parrocchie e dintorni ha sentito cantare un’infinità di volte. Le parole poi si possono pure omettere. L’importante è eseguire fedelmente ogni volta lo stesso identico spartito. Dalle prime comunioni al torneo oratoriale di calcetto, dalla pesca di beneficenza alla benedizione delle famiglie, al giornalino parrocchiale poco cambia.
“Si è fatto sempre così”, è il leit motiv di tanta musica suonata all’ombra dei campanili. Hai voglia a parlare e straparlare di novità, una su tutte la famosa “nuova evangelizzazione” che ad occhio e croce altro non dovrebbe essere che divenire tutti, come Chiesa, più missionari. Altrimenti tutto l’ambaradan non ha più il minimo motivo di sopravvivere ai suoi primi due millenni di più o meno onorata storia; è quel che nei dieci primi mesi di pontificato appena scoccati Francesco ha detto e ridetto in tutte le salse. “Uscire”, le “periferie”, le famose 99 pecorelle smarrite anziché una, la Chiesa che se non apre porte e finestre (per fare uscire Gesù, non solo farlo entrare) si ammala e via discorrendo.
Ri-ridetto se ancora non bastasse in altre parole, “la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è fatto sempre così’”. Il virgolettato, per la precisione, proviene dalla magna charta di Bergoglio papa, l’Evangelii Gaudium del novembre scorso, tanto corposa quanto densa di contenuti. E tuttavia, nell’effervescente profluvio di notizie che la stampa ne ricavò è facile che quella stringata ma tagliente affermazione del paragrafo 37 non abbia riscosso, con tutta probabilità, l’attenzione dovuta davvero.
Francesco però è uomo di fatti, più che di parole. E sono appunto i fatti, tante volte, a parlare per lui meglio di mille discorsi. Vedi le ultime inequivocabili 48 ore di cronache vaticane, prodighe come sono state di materia per cronisti e commentatori del ramo.
Quella noiosa cantilena proprio lo urta. Poteva altrimenti limitarsi ad annunciare e basta, domenica all’Angelus, nomi e cognomi delle nuove porpore di santa Romana Chiesa, i 19 che al concistoro di febbraio (primo di Bergoglio) entreranno nel collegio cardinalizio. Nessun predecessore, infatti, aveva mai indirizzato loro una lettera, come quella diffusa oggi dalla Sala stampa vaticana, con un vellutato (nella forma) ma fermissimo (in sostanza) altolà a “qualsiasi espressione di mondanità” e “qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà e povertà”, nell’accogliere quella che, badate bene, “non significa una promozione, né un onore, né una decorazione: semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e allargare il cuore”.
Come quando nel lontano ormai 2001 toccò a lui, da arcivescovo di Buenos Aires, venire a san Pietro a ritirare berretta, anello e “titolo” cardinalizio. Il “si è fatto sempre così” appunto prevedeva ieri come oggi che le novelle porpore sbarchino a Roma attorniate da nutrite e festanti comitive di parenti, amici, fedeli della diocesi, autorità civili del relativo paese. “Non venite”, taglio corto lui, con un caldo invito a devolvere semmai ai poveri i soldi così risparmiati.
Come dire: è vero, tanto “esclusivo” è quel Collegio che è giusto gioire entrando a farne parte, ma con moderazione. I posti, infatti, per la legge vigente della Chiesa, sono quelli che sono, 120 (escludendo dal conto gli ultraottantenni, che perdono il diritto ad entrare in conclave); gli aspiranti invece molti di più. Il diritto canonico vuole che sia il Papa e nessun altro a sceglierli in tutta libertà. La consuetudine è che il cardinalato sia concesso quasi d’ufficio ad ecclesiastici che ricoprono determinati incarichi nella Curia romana o son pastori di alcune grandi e importanti sedi storiche, dislocate in buon numero nella nostra vecchia Europa (e in Italia in specie). Il guaio è che la geografia dell’orbe cattolico è da qualche tempo in continua evoluzione, e al crescente ‘peso’ delle chiese di terre di missione quali Africa e Asia corrisponde un ormai troppo esiguo numero di porpore.
Come uscire vivi da un tale ginepraio? Forti dell’inebriante esperienza dei dieci mesi costellati da una sorpresa dietro l’altra, c’è da dire che molti commentatori, nel rituale valzer dei pronostici che precedono ogni concistoro, avevano esibito più prudenza del solito. Prudenza sana, a conti fatti, scorrendo a posteriori la lista dei 19 resa pubblica domenica, compresi tre ultraottantenni (uno è lo storico segretario di Giovanni XXIII mons. Capovilla).
Quattro appena sono i ‘curiali’, il segretario di Stato Parolin, il segretario generale del Sinodo mons. Baldisseri e i prefetti delle Congregazioni per il clero, Stella, e per la dottrina della fede, Muller. Tra i ‘residenziali’ quindi spicca nel caso nostro italiano l’assenza di Venezia e Torino, a vantaggio di Mons. Bassetti di Perugia, il cui ultimo arcivescovo a ricevere la porpora fu addirittura nell’800 il futuro papa Leone XIII. Uno strappo che ha del clamoroso alla prassi degli ultimi concistori.
Poi ci sono l’inglese Nichols di Westminster, l’argentino Poli di Buenos Aires, Ezzati Andrello di Santiago del Cile e Tempesta di Rio de Janeiro, tra i cui predecessori molte invece sono state le porpore. Haiti e Bourkina Faso, al contrario, non avevano avuto fino ad oggi neppure un cardinale (rispettivamente Langlois di Les Cayes e Ouedraogo di Ouagadougou). Completano il quadro i rappresentanti di Canada (Lacroix di Quebec), Nicaragua (Brenes Solòrzano di Managua), Costa d’Avorio (Kutwa di Abidjan), Corea del sud (Yeom Soo Jung di Seoul) e Filippine (Quevedo di Cotabato).
Di sedici nuovi cardinali, due sono dunque africani e due asiatici, sei americani (tra nord e sud) e sei europei (di cui quattro italiani). Le “periferie” dell’orbe cattolico guadagnano così non poco terreno, arretra la Curia, dove neppure uno dei presidenti dei Pontifici Consigli riceverà la berretta purpurea. L’intento evidente (oltre al non secondario risultato di tenere a bada carrierismi vari tra i sacri palazzi) è valorizzare e premiare maggiormente l’esperienza dei vescovi-pastori di città e territori di ogni angolo del mondo. E Il cardinalato, altra indicazione che sembra di dover trarre, non dovrebbe più essere nelle intenzioni di Francesco una concessione ‘automatica’ al pastore di sedi cosiddette (fino ad oggi) ‘cardinalizie’, o quanto meno non sempre e in tutti i casi.
Tutto questo non è poco, per un Papa che pure ha scompaginato parecchie abitudini e modi di fare. Se queste sono le premesse, le sorprese non finiranno certo qui. Basta, insomma, con quel trito e ritrito ritornello di cui sopra, sembra voler dire il papa argentino. E il bello, in tutto questo, è osservare la quieta leggerezza con cui attua le sue piccole-grandi rivoluzioni. Gesti e parole non tradiscono nessuna scomposta ansia di cambiare, imporre la propria volontà, prendersi rivincite su nemici veri o presunti. Quel che sempre traspare, semmai, è la serena e responsabile fiducia nelle proprie decisioni, confortata da pazzeschi indici di ‘gradimento’ presso la gente. Altrimenti, e chiudiamo, dove troverebbe Francesco pure il sottile humour per postare come ieri ha fatto un messaggio del genere su twitter? “’Il Signore”, vale a dire, “bussa alla porta del nostro cuore. Forse noi abbiamo messo un piccolo cartello con scritto: Non disturbare?”. E guai a dirgli che un Papa non twitta, perché “si è sempre fatto così”…
di Paolo Fucili
E’ lo stanco ritornello che ogni frequentatore neppure troppo assiduo di sagrestie, parrocchie e dintorni ha sentito cantare un’infinità di volte. Le parole poi si possono pure omettere. L’importante è eseguire fedelmente ogni volta lo stesso identico spartito. Dalle prime comunioni al torneo oratoriale di calcetto, dalla pesca di beneficenza alla benedizione delle famiglie, al giornalino parrocchiale poco cambia.
“Si è fatto sempre così”, è il leit motiv di tanta musica suonata all’ombra dei campanili. Hai voglia a parlare e straparlare di novità, una su tutte la famosa “nuova evangelizzazione” che ad occhio e croce altro non dovrebbe essere che divenire tutti, come Chiesa, più missionari. Altrimenti tutto l’ambaradan non ha più il minimo motivo di sopravvivere ai suoi primi due millenni di più o meno onorata storia; è quel che nei dieci primi mesi di pontificato appena scoccati Francesco ha detto e ridetto in tutte le salse. “Uscire”, le “periferie”, le famose 99 pecorelle smarrite anziché una, la Chiesa che se non apre porte e finestre (per fare uscire Gesù, non solo farlo entrare) si ammala e via discorrendo.
Ri-ridetto se ancora non bastasse in altre parole, “la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è fatto sempre così’”. Il virgolettato, per la precisione, proviene dalla magna charta di Bergoglio papa, l’Evangelii Gaudium del novembre scorso, tanto corposa quanto densa di contenuti. E tuttavia, nell’effervescente profluvio di notizie che la stampa ne ricavò è facile che quella stringata ma tagliente affermazione del paragrafo 37 non abbia riscosso, con tutta probabilità, l’attenzione dovuta davvero.
Francesco però è uomo di fatti, più che di parole. E sono appunto i fatti, tante volte, a parlare per lui meglio di mille discorsi. Vedi le ultime inequivocabili 48 ore di cronache vaticane, prodighe come sono state di materia per cronisti e commentatori del ramo.
Quella noiosa cantilena proprio lo urta. Poteva altrimenti limitarsi ad annunciare e basta, domenica all’Angelus, nomi e cognomi delle nuove porpore di santa Romana Chiesa, i 19 che al concistoro di febbraio (primo di Bergoglio) entreranno nel collegio cardinalizio. Nessun predecessore, infatti, aveva mai indirizzato loro una lettera, come quella diffusa oggi dalla Sala stampa vaticana, con un vellutato (nella forma) ma fermissimo (in sostanza) altolà a “qualsiasi espressione di mondanità” e “qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà e povertà”, nell’accogliere quella che, badate bene, “non significa una promozione, né un onore, né una decorazione: semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e allargare il cuore”.
Come quando nel lontano ormai 2001 toccò a lui, da arcivescovo di Buenos Aires, venire a san Pietro a ritirare berretta, anello e “titolo” cardinalizio. Il “si è fatto sempre così” appunto prevedeva ieri come oggi che le novelle porpore sbarchino a Roma attorniate da nutrite e festanti comitive di parenti, amici, fedeli della diocesi, autorità civili del relativo paese. “Non venite”, taglio corto lui, con un caldo invito a devolvere semmai ai poveri i soldi così risparmiati.
Come dire: è vero, tanto “esclusivo” è quel Collegio che è giusto gioire entrando a farne parte, ma con moderazione. I posti, infatti, per la legge vigente della Chiesa, sono quelli che sono, 120 (escludendo dal conto gli ultraottantenni, che perdono il diritto ad entrare in conclave); gli aspiranti invece molti di più. Il diritto canonico vuole che sia il Papa e nessun altro a sceglierli in tutta libertà. La consuetudine è che il cardinalato sia concesso quasi d’ufficio ad ecclesiastici che ricoprono determinati incarichi nella Curia romana o son pastori di alcune grandi e importanti sedi storiche, dislocate in buon numero nella nostra vecchia Europa (e in Italia in specie). Il guaio è che la geografia dell’orbe cattolico è da qualche tempo in continua evoluzione, e al crescente ‘peso’ delle chiese di terre di missione quali Africa e Asia corrisponde un ormai troppo esiguo numero di porpore.
Come uscire vivi da un tale ginepraio? Forti dell’inebriante esperienza dei dieci mesi costellati da una sorpresa dietro l’altra, c’è da dire che molti commentatori, nel rituale valzer dei pronostici che precedono ogni concistoro, avevano esibito più prudenza del solito. Prudenza sana, a conti fatti, scorrendo a posteriori la lista dei 19 resa pubblica domenica, compresi tre ultraottantenni (uno è lo storico segretario di Giovanni XXIII mons. Capovilla).
Quattro appena sono i ‘curiali’, il segretario di Stato Parolin, il segretario generale del Sinodo mons. Baldisseri e i prefetti delle Congregazioni per il clero, Stella, e per la dottrina della fede, Muller. Tra i ‘residenziali’ quindi spicca nel caso nostro italiano l’assenza di Venezia e Torino, a vantaggio di Mons. Bassetti di Perugia, il cui ultimo arcivescovo a ricevere la porpora fu addirittura nell’800 il futuro papa Leone XIII. Uno strappo che ha del clamoroso alla prassi degli ultimi concistori.
Poi ci sono l’inglese Nichols di Westminster, l’argentino Poli di Buenos Aires, Ezzati Andrello di Santiago del Cile e Tempesta di Rio de Janeiro, tra i cui predecessori molte invece sono state le porpore. Haiti e Bourkina Faso, al contrario, non avevano avuto fino ad oggi neppure un cardinale (rispettivamente Langlois di Les Cayes e Ouedraogo di Ouagadougou). Completano il quadro i rappresentanti di Canada (Lacroix di Quebec), Nicaragua (Brenes Solòrzano di Managua), Costa d’Avorio (Kutwa di Abidjan), Corea del sud (Yeom Soo Jung di Seoul) e Filippine (Quevedo di Cotabato).
Di sedici nuovi cardinali, due sono dunque africani e due asiatici, sei americani (tra nord e sud) e sei europei (di cui quattro italiani). Le “periferie” dell’orbe cattolico guadagnano così non poco terreno, arretra la Curia, dove neppure uno dei presidenti dei Pontifici Consigli riceverà la berretta purpurea. L’intento evidente (oltre al non secondario risultato di tenere a bada carrierismi vari tra i sacri palazzi) è valorizzare e premiare maggiormente l’esperienza dei vescovi-pastori di città e territori di ogni angolo del mondo. E Il cardinalato, altra indicazione che sembra di dover trarre, non dovrebbe più essere nelle intenzioni di Francesco una concessione ‘automatica’ al pastore di sedi cosiddette (fino ad oggi) ‘cardinalizie’, o quanto meno non sempre e in tutti i casi.
Tutto questo non è poco, per un Papa che pure ha scompaginato parecchie abitudini e modi di fare. Se queste sono le premesse, le sorprese non finiranno certo qui. Basta, insomma, con quel trito e ritrito ritornello di cui sopra, sembra voler dire il papa argentino. E il bello, in tutto questo, è osservare la quieta leggerezza con cui attua le sue piccole-grandi rivoluzioni. Gesti e parole non tradiscono nessuna scomposta ansia di cambiare, imporre la propria volontà, prendersi rivincite su nemici veri o presunti. Quel che sempre traspare, semmai, è la serena e responsabile fiducia nelle proprie decisioni, confortata da pazzeschi indici di ‘gradimento’ presso la gente. Altrimenti, e chiudiamo, dove troverebbe Francesco pure il sottile humour per postare come ieri ha fatto un messaggio del genere su twitter? “’Il Signore”, vale a dire, “bussa alla porta del nostro cuore. Forse noi abbiamo messo un piccolo cartello con scritto: Non disturbare?”. E guai a dirgli che un Papa non twitta, perché “si è sempre fatto così”…
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