giovedì, gennaio 09, 2014
Al via in Rwanda il programma di commemorazioni per i 20 anni dal genocidio del 1994

Radio Vaticana - Secondo l’Onu, almeno 800 mila persone, perlopiù della comunità tutsi, vennero barbaramente uccise. Con l’abbattimento dell’aero su cui viaggiava l’allora presidente, Juvénal Habyarimana, il massacro perpetrato da estremisti hutu si prolungò dal 7 aprile fino alla metà di luglio. A pesare, anche un lungo silenzio della comunità internazionale. Ieri, a Kigali, è stata accesa una torcia in memoria delle vittime del genocidio, che per tre mesi attraverserà tutto il Paese. Poi, comincerà un periodo di lutto nazionale. Sull’eccidio, Daniele Scaglione ha scritto il libro “Rwanda. Istruzioni per un genocidio” e sta preparando un ulteriore saggio al riguardo. Giada Aquilino lo ha intervistato: ascolta

R. – Quando pensiamo al genocidio del ’94, forse facciamo fatica a immaginare cosa sia stato. Non è stato solo la morte di tantissime persone e di molte altre ferite: è stato un Paese raso al suolo. Vedere che oggi il Rwanda riesce, ad esempio sugli Obiettivi del millennio, a essere molto più in linea di altri Paesi in via di sviluppo è davvero impressionante. In vent’anni, ha fatto dei progressi strepitosi sul piano sociale ed economico. Ciò non toglie che ci siano ancora dei problemi di divisione, dei problemi di diffidenza all’interno della stessa popolazione e anche un problema politico, nel senso che ci s’interroga su quale sarà il futuro, quale sarà il dopo Kagame, l’attuale presidente.

D. – Di fatto, perché si arrivò al genocidio?

R. – C’è stata una divisione fra hutu e tutsi creata artificialmente, innanzi tutto dai colonizzatori - i tedeschi in primissima battuta e i belgi successivamente - come modo per governare il Paese. L’idea è stata quella di mettere i tutsi a governare. Poi, a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, la situazione si ribalta. Gli hutu, che sono la maggioranza e che si sentono vittime di decenni di sfruttamento, si rifanno contro i tutsi e ne determinano l’espulsione all’estero di parecchie decine di migliaia. Tutta questa comunità tutsi all’estero si organizza per rientrare, prima provando con la via diplomatica, poi con la via della lotta armata, della guerra, cominciata nell’ottobre del 1990: questo è un punto di svolta verso il genocidio. Tutti gli anni, infatti, che vanno dal ’90 al ’94 sono stati anni di odio e di incitamento alla violenza contro i Tutsi e ciò ha avuto come focolaio proprio questa guerra che i Tutsi stessi dall’estero avevano voluto per tornare nel loro Paese.

D. – Quello che colpisce ancora oggi è la violenza generalizzata che ci fu allora...

R. – Sì, colpisce. Ma colpisce soprattutto il fatto che questa violenza non sia stata spontanea, perché c’è stata veramente un’organizzazione precisa, meticolosa, dalla propaganda dei giornali alla distribuzione di armi, all’addestramento. Una cosa su cui non dobbiamo farci ingannare è l’idea che questa violenza sia stata perpetrata con armi tradizionali, tipo machete. Certo, c’è stato anche il machete, ma non è il simbolo di quel genocidio. Il simbolo è rappresentato dagli enormi carichi di armi che hanno reso il Rwanda, grande come la Lombardia, il terzo Paese importatore, in termini assoluti, di armi in Africa. E qualcuno ha venduto queste armi, qualcuno ha prestato i soldi perché il Rwanda potesse diventare un arsenale spaventosamente pronto al massacro. E questo qualcuno siamo "noi" Paesi occidentali fondamentalmente, non altri.

D. – Giovanni Paolo II invocò la fine del massacro. Nel maggio del ’94, disse al Regina Caeli: “Basta con il sangue”, affermando che purtroppo anche dei cattolici si erano resi responsabili del genocidio. Papa Wojtyla disse: Dio attende da tutti i rwandesi “un risveglio morale, il coraggio del perdono e della fratellanza”. Vent’anni dopo, che segnali ci sono?

R. – Giovanni Paolo II fu il primo capo di Stato ad usare la parola “genocidio” in maniera pubblica. Rispetto al perdono, alla fratellanza e alla riconciliazione, bisogna andare ancora a ricostruire le responsabilità fino in fondo. Ci sono stati esponenti del clero, non solo cattolico, che sono stati complici del genocidio. Ce ne sono stati altri che invece si sono fatti ammazzare pur di difendere le persone a rischio di massacro. E non sono pochi: sono stati 103 i preti uccisi, proprio perché durante i massacri del ’94 hanno cercato di nascondere e difendere le potenziali vittime. Ma il perdono è stato anche l’elemento portante dei tribunali tradizionali, i cosiddetti gachacha, che in lingua originale vuole sostanzialmente dire “prato”: un posto dove i rwandesi a milioni sono andati a fare i processi a livello popolare. Alla vittima veniva chiesto di perdonare i responsabili delle violenze e ciò è stato molto difficile per i sopravvissuti. Parlando con molti rwandesi, ho capito però che questi processi, che alcuni chiamano “seduta psicanalitica di massa”, sono stati indispensabili per dirsi: “ricostruiamo tutto quello che è successo e poi proviamo ad andare avanti”.

D. – Lei oggi sta curando un altro saggio sul Rwanda, un dialogo a due voci...

R. – Per me, è stato molto interessante confrontarmi con una ragazza, che si chiama Françoise Kankindi, presidente dell’organizzazione “Bene Rwanda”, che era in Italia al momento del genocidio. La sua presenza, infatti, era veramente un monito importante, che ci portava a dire: il genocidio non è lontano. Con Françoise, stiamo cercando di ricostruire questa vicenda, con un libro che uscirà a fine marzo, per la ricorrenza del 6-7 aprile. E stiamo ragionando anche su cosa è cambiato, approfittando del fatto che Françoise è tornata in Rwanda parecchie volte da allora, per vedere come si è sviluppato il suo Paese e come è mutato.


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