A dieci anni dalla sua istituzione in Italia si celebra lunedì 10 febbraio, la solennità del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano dalmata, provocate tra il 1943 e il 1945 dalla furia dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito.
Radio Vaticana - Una pagina storica cancellata per sessant’anni e ancora poco conosciuta. Almeno diecimila gli infoibati accertati, trecentocinquantamila gli esuli italiani. Secondo i parenti delle vittime oggi il rischio è che dal negazionismo si passi al riduzionismo, ovvero alla svalutazione della reale portata di questa tragedia. Paolo Ondarza: ascolta
Sono gli anni a cavallo del 1945, l’Italia lentamente prova a rialzarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma a Trieste è l’inizio di un incubo. Nella città e nell’Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito i cittadini subiscono torture, deportazioni o vengono uccise. Sono innocenti, colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Moltissimi di loro vengono gettati vivi dentro le foibe, voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso. In massa fuggono dalle terre di Istria e Dalmazia cacciati dalla furia comunista. Una tragedia italiana ancora poco conosciuta e per sessant’anni cancellata dai libri di storia. Solo dal 2004, in memoria delle vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del 'Giorno del Ricordo'. Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” edito da Pagine, membro dell’“Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:
R. – Sono esule di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.
D. – Ci aiuta a ricostruire, anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?
R. – Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti i “guardate, voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci, intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati, perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe - affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.
D. – E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...
R. – Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.
D. – Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare il numero delle vittime...
R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine.
D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno del ricordo...
R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione. Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.
D. – 60 anni di silenzio, perché?
R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione, dopo l’unità d’Italia.
Radio Vaticana - Una pagina storica cancellata per sessant’anni e ancora poco conosciuta. Almeno diecimila gli infoibati accertati, trecentocinquantamila gli esuli italiani. Secondo i parenti delle vittime oggi il rischio è che dal negazionismo si passi al riduzionismo, ovvero alla svalutazione della reale portata di questa tragedia. Paolo Ondarza: ascolta
Sono gli anni a cavallo del 1945, l’Italia lentamente prova a rialzarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma a Trieste è l’inizio di un incubo. Nella città e nell’Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito i cittadini subiscono torture, deportazioni o vengono uccise. Sono innocenti, colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Moltissimi di loro vengono gettati vivi dentro le foibe, voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso. In massa fuggono dalle terre di Istria e Dalmazia cacciati dalla furia comunista. Una tragedia italiana ancora poco conosciuta e per sessant’anni cancellata dai libri di storia. Solo dal 2004, in memoria delle vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del 'Giorno del Ricordo'. Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” edito da Pagine, membro dell’“Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:
R. – Sono esule di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.
D. – Ci aiuta a ricostruire, anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?
R. – Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti i “guardate, voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci, intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati, perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe - affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.
D. – E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...
R. – Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.
D. – Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare il numero delle vittime...
R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine.
D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno del ricordo...
R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione. Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.
D. – 60 anni di silenzio, perché?
R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione, dopo l’unità d’Italia.
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