sabato, marzo 29, 2014
Le quattro figlie della ex moglie di re Abdullah da 13 anni abusate e rinchiuse nel palazzo reale. Pressioni su Obama perché denunci le violazioni dell’alleato saudita. 

di Giorgia Grifoni 

Nena News – Tra strette di mano e sorrisi cordialmente gelidi, a Riyadh il presidente americano Barack Obama si troverà costretto a compiere una scelta: sollevare la questione dei diritti umani in Arabia Saudita e aprire, di conseguenza, un’ulteriore crepa nelle relazioni dell’amministrazione americana con la monarchia saudita; oppure tacere, e ignorare le insistenze di chi – dalle organizzazioni umanitarie ai legislatori americani – lo prega da giorni di essere coerente con i messaggi di libertà di azione che lui stesso professa da due mandati.

Un caso specifico rischia di diventare per Obama una bomba a orologeria: l’appello, pubblicamente rivolto al presidente americano da Alanoud al-Fayez, ex seconda moglie del sovrano Abdullah, perché aiuti le sue quattro figlie a essere liberate dal palazzo reale nel quale sono rinchiuse da 13 anni. Sahar, Maha, Hala e Jawaher, tutte sulla quarantina e non sposate, vivrebbero da recluse a Jeddah, senza documenti (e quindi, senza speranza di poter fuggire), guardate a vista dai loro fratelli e dal personale di palazzo, sottoposte ad abusi fisici e mentali.

Secondo quanto denunciato all’AFP dalla maggiore delle figlie, Sahar, le loro condizioni starebbero peggiorando. “Ora siamo agli arresti domiciliari. Da mercoledì scorso – ha rivelato la donna – ci stanno letteralmente affamando. Abbiamo diritto a un solo pasto al giorno, più qualcosa per i nostri animali domestici, e abbiamo pochissima acqua in questa calura. Stiamo perdendo le energie e ci stiamo battendo per sopravvivere”. Una versione in parte confermata anche da alcuni diplomatici sauditi, che si sono affrettati a dire che le principesse sono “tenute” a Jeddah, ma ogni tanto hanno la possibilità di uscire in città accompagnate da guardie del corpo.

Si potrebbe pensare a una bufala, dal momento che le ragazze in più occasioni sono riuscite ad accedere a internet e a mettersi in contatto con alcuni organi stampa. Eppure la storia delle principesse segregate nel palazzo reale non è nuova alle cronache: Alanoud stessa, anni prima, si era rivolta a una giornalista del quotidiano inglese The Independent per denunciare il costo del suo divorzio da re Abdullah. Proveniente da una facoltosa famiglia giordana, seconda sposa del principe ereditario a soli 15 anni, Alanoud era stata “divorziata” da Abdullah secondo la prassi islamica che permette di sciogliere il matrimonio solo con una formula pronunciata dall’uomo. Poi Abdullah l’aveva ripresa con sé e ripudiata una seconda volta. Lei era scappata a Londra, ma le sue figlie erano rimaste in Arabia Saudita, rinchiuse nel palazzo.

L’imprigionamento delle ragazze sarebbe una probabile vendetta nei suoi confronti. A quanto racconta Yasmin Alibhai Brown su The Independent, le ragazze erano cresciute tra amore e lusso, le più viziate dal padre tra tutti e trenta i suoi figli: incredibilmente, Abdullah permetteva loro di andare a sciare all’estero. Avevano viaggiato, studiato, trovato la propria strada. Poi la madre, divorziata due volte, aveva deciso di lasciare il Regno. E lui si era tenuto le figlie, le quali anni dopo hanno contattato un’altra giornalista, Hala Jaber, del Sunday Times, per raccontare la loro prigionia. Una delle figlie, Hala, avrebbe sviluppato seri problemi psichiatrici.

Un affare così grande è riuscito, a quanto pare, a passare in sordina con molta facilità. La comunità internazionale che dialoga felicemente con l’Arabia Saudita sui diritti umani in Siria non si sognerebbe mai di denunciare la totale assenza di libertà fondamentali e dignità umane del proprio alleato di ferro in Medio Oriente. Censura, condanne a morte per una semplice protesta, divieti unici come quello, per le donne, di guidare o di fare una passeggiata da sole. Ma il caso delle principesse recluse va ben oltre il pugno di ferro nei confronti della società. Per questo Alanoud spera che Obama colga “l’occasione per denunciare le gravi violazioni commesse nei confronti delle mie figlie”. Troppo spinosa la questione, troppo importante l’alleato, non solo per la “stabilità” politica del Medio Oriente, ma soprattutto per i petrodollari che versa nelle casse americane in cambio di armi. Insomma, la posta in gioco è troppo alta per permettersi di essere coerenti.


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