Settantadue ore per dare nuovo vigore al dialogo di pace in Medio Oriente, per mettere un altro tassello sulla strada dell'unità dei cristiani e nel difficoltoso puzzle per la fratellanza tra i popoli.
L'espressione "Ut unum sint" - "che tutti siano una cosa sola" - non è solo l'invocazione di Cristo durante l'ultima cena o il titolo della lettera enciclica di Giovanni Paolo II sull'impegno ecumenico (diffusa il 25 maggio del 1995), ma è anche l'incisivo appello di papa Francesco al mondo, perché si sappia realizzare quella prossimità dei sentimenti che diventi vera e propria comunione con l'altro.
I tre giorni di viaggio apostolico in Terra Santa, conclusi con il rientro ieri sera a Ciampino attorno alle 23, hanno permesso di dare un nuovo impulso su fronti caratterizzati da grande delicatezza, innanzitutto sotto il profilo politico e religioso. La Terra Santa è area di conflitti e contraddizioni, la prima delle quali va senz'altro ricercata in quel contrasto tra una quotidianità caratterizzata da gravi intolleranze e la presenza delle tre grandi religioni monoteistiche, come soggetti preposti a elaborare e attuare una convivenza pacifica, nel nome del proprio Dio.
L'anniversario dei cinquant'anni dal primo viaggio internazionale di Paolo VI, si è presto ammantato di risonanze e simbologie, celebrando quel momento come punto di partenza per un percorso comune e nuovo, per una maturazione della storia che sappia scrostarsi da quelle stratificazioni depositate da lunghe incomprensioni, in un cammino che ha visto fortemente impegnati anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Così l'abbraccio tra Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Atenagora si è riflesso, dopo mezzo secolo, in quello tra Francesco e Bartolomeo I, sostanziato dall'impegno contenuto nella dichiarazione congiunta: "pienamente consapevoli di non avere raggiunto l’obiettivo della piena comunione - si legge - oggi ribadiamo il nostro impegno a continuare a camminare insieme verso l’unità per la quale Cristo Signore ha pregato il Padre, perché tutti siano una sola cosa".
Quindi l'incontro con il presidente Mahmoud Abbas e con le autorità palestinesi con l'auspicio che "si evitino da parte di tutti iniziative e atti che contraddicono alla dichiarata volontà di giungere ad un vero accordo e che non ci si stanchi di perseguire la pace con determinazione e coerenza. La pace porterà con sé innumerevoli benefici per i popoli di questa regione e per il mondo intero. Occorre dunque incamminarsi risolutamente verso di essa, anche rinunciando ognuno a qualche cosa".
Un "felice esodo verso la pace" che richiede coraggio, fermezza e il sostegno della preghiera: con questo scopo papa Francesco ha espresso il desiderio di un momento comune di raccoglimento con Abū Māzen e il presidente israeliano Shimon Peres. "Offro la mia casa in Vaticano - ha detto il papa - per ospitare questo incontro di preghiera. Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti; molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla. E tutti, specialmente coloro che sono posti al servizio dei propri popoli, abbiamo il dovere di farci strumenti e costruttori di pace, prima di tutto nella preghiera".
La preghiera, dunque, come forma di profondo dialogo con Dio è stato il segno principale di questo viaggio, assieme all'immediatezza dei gesti, capaci di veicolare l'immagine e lo spirito che animava il pellegrino Francesco, la sua ricerca di pace e di dialogo. Il viaggio di papa Bergoglio, come di consuetudine, è stato caratterizzato da una marcata spontaneità che ha condotto a inattesi fuori programma, come la decisione di fermarsi dinanzi al muro che divide i territori palestinese e israeliano, raccolto in preghiera, con la testa appoggiata a questa barriera innalzata sulla mancanza di dialogo e sulle paure che ne derivano.
In fin dei conti la paura è spesso generata dall'assenza di confronto e di coraggio, altrettanto frequentemente diviene il pretesto per la sopraffazione, per gesti dinanzi ai quali - ha invocato Francesco durante la visita al museo dell'olocausto, il Yad Vashem, in quel suo discorso-preghiera - "dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita".
Un messaggio esportabile in tante realtà, da leggere nella prospettiva di una comunione di amore, finalizzata alla costruzione di un equilibrio internazionale per il cui raggiungimento dobbiamo tenere presente che "la pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare pazientemente e costruire artigianalmente mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana". E il cantiere è aperto, in Terra Santa come in ogni altro luogo, affidato a uomini di buona volontà disposti a vivere "una comunicazione e uno scambio fraterni che possono darci ristoro e offrirci nuove forze per affrontare le sfide comuni che ci si pongono innanzi".
di Elisabetta Lo Iacono
L'espressione "Ut unum sint" - "che tutti siano una cosa sola" - non è solo l'invocazione di Cristo durante l'ultima cena o il titolo della lettera enciclica di Giovanni Paolo II sull'impegno ecumenico (diffusa il 25 maggio del 1995), ma è anche l'incisivo appello di papa Francesco al mondo, perché si sappia realizzare quella prossimità dei sentimenti che diventi vera e propria comunione con l'altro.
I tre giorni di viaggio apostolico in Terra Santa, conclusi con il rientro ieri sera a Ciampino attorno alle 23, hanno permesso di dare un nuovo impulso su fronti caratterizzati da grande delicatezza, innanzitutto sotto il profilo politico e religioso. La Terra Santa è area di conflitti e contraddizioni, la prima delle quali va senz'altro ricercata in quel contrasto tra una quotidianità caratterizzata da gravi intolleranze e la presenza delle tre grandi religioni monoteistiche, come soggetti preposti a elaborare e attuare una convivenza pacifica, nel nome del proprio Dio.
L'anniversario dei cinquant'anni dal primo viaggio internazionale di Paolo VI, si è presto ammantato di risonanze e simbologie, celebrando quel momento come punto di partenza per un percorso comune e nuovo, per una maturazione della storia che sappia scrostarsi da quelle stratificazioni depositate da lunghe incomprensioni, in un cammino che ha visto fortemente impegnati anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Così l'abbraccio tra Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Atenagora si è riflesso, dopo mezzo secolo, in quello tra Francesco e Bartolomeo I, sostanziato dall'impegno contenuto nella dichiarazione congiunta: "pienamente consapevoli di non avere raggiunto l’obiettivo della piena comunione - si legge - oggi ribadiamo il nostro impegno a continuare a camminare insieme verso l’unità per la quale Cristo Signore ha pregato il Padre, perché tutti siano una sola cosa".
Quindi l'incontro con il presidente Mahmoud Abbas e con le autorità palestinesi con l'auspicio che "si evitino da parte di tutti iniziative e atti che contraddicono alla dichiarata volontà di giungere ad un vero accordo e che non ci si stanchi di perseguire la pace con determinazione e coerenza. La pace porterà con sé innumerevoli benefici per i popoli di questa regione e per il mondo intero. Occorre dunque incamminarsi risolutamente verso di essa, anche rinunciando ognuno a qualche cosa".
Un "felice esodo verso la pace" che richiede coraggio, fermezza e il sostegno della preghiera: con questo scopo papa Francesco ha espresso il desiderio di un momento comune di raccoglimento con Abū Māzen e il presidente israeliano Shimon Peres. "Offro la mia casa in Vaticano - ha detto il papa - per ospitare questo incontro di preghiera. Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti; molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla. E tutti, specialmente coloro che sono posti al servizio dei propri popoli, abbiamo il dovere di farci strumenti e costruttori di pace, prima di tutto nella preghiera".
La preghiera, dunque, come forma di profondo dialogo con Dio è stato il segno principale di questo viaggio, assieme all'immediatezza dei gesti, capaci di veicolare l'immagine e lo spirito che animava il pellegrino Francesco, la sua ricerca di pace e di dialogo. Il viaggio di papa Bergoglio, come di consuetudine, è stato caratterizzato da una marcata spontaneità che ha condotto a inattesi fuori programma, come la decisione di fermarsi dinanzi al muro che divide i territori palestinese e israeliano, raccolto in preghiera, con la testa appoggiata a questa barriera innalzata sulla mancanza di dialogo e sulle paure che ne derivano.
Un messaggio esportabile in tante realtà, da leggere nella prospettiva di una comunione di amore, finalizzata alla costruzione di un equilibrio internazionale per il cui raggiungimento dobbiamo tenere presente che "la pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare pazientemente e costruire artigianalmente mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana". E il cantiere è aperto, in Terra Santa come in ogni altro luogo, affidato a uomini di buona volontà disposti a vivere "una comunicazione e uno scambio fraterni che possono darci ristoro e offrirci nuove forze per affrontare le sfide comuni che ci si pongono innanzi".
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