Continua la mobilitazione internazionale per Meriam Yahia Ibrahim, la donna cristiana sudanese condannata a morte per apostasia e adulterio.
Radio Vaticana - Il premier britannico David Cameron, riprendendo un appello del quotidiano Times, ha chiesto al governo del Sudan di annullare “la barbarica sentenza” e di fornire assistenza medica a Meriam, al figlio di 20 mesi e alla neonata da lei partorita in carcere. Sull’appello di Cameron ascoltiamo, nell’intervista di Davide Maggiore, il commento di Riccardo Noury, direttore della comunicazione di Amnesty International Italia: ascolta
R. - È un segnale positivo a condizione che non sia “ad intermittenza” e che accompagni lo sforzo che stanno facendo le associazioni locali per i diritti umani in Sudan, il tentativo da parte dell’avvocato di Meriam di far annullare in secondo grado, o al più tardi dalla Corte suprema, questa condanna duplice che Amnesty International ha definito “ripugnante”.
D. - È una condanna che rischia di costare a Meriam un’altra pena atroce: quella delle frustate entro due settimane se appunto non arrivasse questa revisione della sentenza …
R. - È una vicenda paradossale dal punto di vista giudiziario, perché la condanna per adulterio nasce dal fatto che il matrimonio di Meriam con suo marito non è stato giudicato valido e pertanto i figli sono considerati nati al di fuori dal matrimonio e quindi in un contesto adulterino. È veramente surreale. È molto raro che queste condanne siano eseguite, soprattutto per quanto riguarda la prima, la condanna per apostasia all’impiccagione. Dal 1991, quando è entrato in vigore il Codice penale, non ce n’è stata neanche una. Però non si può andare avanti così! Ogni volta con delle condanne atroci in primo grado, il mondo si mobilita e poi si cerca di fare qualcosa ottenendo un risultato che spesso è positivo. Quelle leggi vanno annullate. Tutte le persone che sono condannate per questi presunti reati, che reati non sono, devono essere scarcerate, e occorre che il governo del Sudan si renda conto che violare in maniera così eclatante la libertà di religione e la libertà di poter frequentare, sposare, avere una famiglia con chi si desidera è inaccettabile; è qualcosa che deve terminare al più presto.
D. - Una ragione di speranza, d’altro canto, viene forse da quanto è stato concesso al marito di Meriam di poter visitare la moglie e i bambini in carcere due volte alla settimana …
R. - È un segno di speranza, ma naturalmente non bisogna accontentarsi. Dal Sudan arrivano segnali che vanno letti in maniera ottimista. È chiaro che la pressione internazionale sta spingendo le autorità sudanesi ad avere un approccio più morbido, ma naturalmente nessuno può essere soddisfatto se ci si limita a concedere al padre la possibilità di vedere la sua famiglia in carcere. Ci sono parole, da parte del presidente della Corte suprema, secondo le quali questa sentenza non sarà confermata perché un conto è applicare la sharia in un processo di primo grado, un conto è fare una figura atroce a livello mondiale; quindi siamo ottimisti. Però, se tutto questo finora è successo, la concessione delle visite, qualche dubbio sulla sentenza e sull’opportunità di confermarla, non è perché le autorità sudanesi siano diventate improvvisamente tolleranti su questo, ma perché c’è stata una pressione che le ha costrette a fare piccole concessioni. Ma non basta! Finché la condanna duplice non viene ufficialmente annullata, per noi rimane in vigore e siamo preoccupati.
D. - Tutto questo avviene per di più in un contesto difficile per la libertà religiosa in Sudan …
R. - Dall’inizio degli Anni ’90 c’è stato un processo di islamizzazione della società basata su uno spazio sempre più ampio dato alla sharia, alle leggi islamiche. Questo ha significato restringere ancora di più la libertà di religione e quindi porre norme comportamentali, come ad esempio quelle legate al vestiario, è stato introdotto il concetto di indecenza … Tutto questo riguarda prevalentemente le donne. Quindi è una legislazione inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale, discriminatoria e preclude la possibilità di esprimere la propria fede religiosa.
Radio Vaticana - Il premier britannico David Cameron, riprendendo un appello del quotidiano Times, ha chiesto al governo del Sudan di annullare “la barbarica sentenza” e di fornire assistenza medica a Meriam, al figlio di 20 mesi e alla neonata da lei partorita in carcere. Sull’appello di Cameron ascoltiamo, nell’intervista di Davide Maggiore, il commento di Riccardo Noury, direttore della comunicazione di Amnesty International Italia: ascolta
R. - È un segnale positivo a condizione che non sia “ad intermittenza” e che accompagni lo sforzo che stanno facendo le associazioni locali per i diritti umani in Sudan, il tentativo da parte dell’avvocato di Meriam di far annullare in secondo grado, o al più tardi dalla Corte suprema, questa condanna duplice che Amnesty International ha definito “ripugnante”.
D. - È una condanna che rischia di costare a Meriam un’altra pena atroce: quella delle frustate entro due settimane se appunto non arrivasse questa revisione della sentenza …
R. - È una vicenda paradossale dal punto di vista giudiziario, perché la condanna per adulterio nasce dal fatto che il matrimonio di Meriam con suo marito non è stato giudicato valido e pertanto i figli sono considerati nati al di fuori dal matrimonio e quindi in un contesto adulterino. È veramente surreale. È molto raro che queste condanne siano eseguite, soprattutto per quanto riguarda la prima, la condanna per apostasia all’impiccagione. Dal 1991, quando è entrato in vigore il Codice penale, non ce n’è stata neanche una. Però non si può andare avanti così! Ogni volta con delle condanne atroci in primo grado, il mondo si mobilita e poi si cerca di fare qualcosa ottenendo un risultato che spesso è positivo. Quelle leggi vanno annullate. Tutte le persone che sono condannate per questi presunti reati, che reati non sono, devono essere scarcerate, e occorre che il governo del Sudan si renda conto che violare in maniera così eclatante la libertà di religione e la libertà di poter frequentare, sposare, avere una famiglia con chi si desidera è inaccettabile; è qualcosa che deve terminare al più presto.
D. - Una ragione di speranza, d’altro canto, viene forse da quanto è stato concesso al marito di Meriam di poter visitare la moglie e i bambini in carcere due volte alla settimana …
R. - È un segno di speranza, ma naturalmente non bisogna accontentarsi. Dal Sudan arrivano segnali che vanno letti in maniera ottimista. È chiaro che la pressione internazionale sta spingendo le autorità sudanesi ad avere un approccio più morbido, ma naturalmente nessuno può essere soddisfatto se ci si limita a concedere al padre la possibilità di vedere la sua famiglia in carcere. Ci sono parole, da parte del presidente della Corte suprema, secondo le quali questa sentenza non sarà confermata perché un conto è applicare la sharia in un processo di primo grado, un conto è fare una figura atroce a livello mondiale; quindi siamo ottimisti. Però, se tutto questo finora è successo, la concessione delle visite, qualche dubbio sulla sentenza e sull’opportunità di confermarla, non è perché le autorità sudanesi siano diventate improvvisamente tolleranti su questo, ma perché c’è stata una pressione che le ha costrette a fare piccole concessioni. Ma non basta! Finché la condanna duplice non viene ufficialmente annullata, per noi rimane in vigore e siamo preoccupati.
D. - Tutto questo avviene per di più in un contesto difficile per la libertà religiosa in Sudan …
R. - Dall’inizio degli Anni ’90 c’è stato un processo di islamizzazione della società basata su uno spazio sempre più ampio dato alla sharia, alle leggi islamiche. Questo ha significato restringere ancora di più la libertà di religione e quindi porre norme comportamentali, come ad esempio quelle legate al vestiario, è stato introdotto il concetto di indecenza … Tutto questo riguarda prevalentemente le donne. Quindi è una legislazione inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale, discriminatoria e preclude la possibilità di esprimere la propria fede religiosa.
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