giovedì, giugno 05, 2014
Il Papa all'udienza generale: no al pietismo della “mugna quacia”

di Paolo Fucili

E dopo il “damose da fa’-volemose bene-semo romani” di Karol Wojtyla di fronte ad un'entusiasta platea di sacerdoti madrelingua romaneschi, ecco ieri a sorpresa la “mugna quacia” di Jorge Bergoglio. Con la differenza però non da poco, si badi bene, che il secondo ha fatto tutto da solo, mentre a strappare al predecessore quelle poche eppur sentite parole fu la giocosa insistenza di un sacerdote “romano de Roma” cultore di poesia dialettale, tale padre Lucio Zappatore da Torrespaccata, narrano le cronache, poeta anche lui e pure prolifico, che proprio ai diversi pontefici incontrati e conosciuti ama ispirarsi. Era il 2004, l'occasione l'annuale incontro del Papa col clero di Roma, appunto. Al sagace prete-poeta, presa la parola, venne in mente così su due piedi di chiedere a sua Santità perché lui che ad ogni viaggio fuori d'Italia parlava qualsiasi lingua non si fosse mai cimentato col dialetto della sua città di adozione. E Wojtyla non si fece certo pregare, pur tra lo sconcerto di qualche collaboratore (e anche di qualche leghista, quando la notizia si sparse).

Fatto salvo dunque il primato “storico” del romanesco (il che trattandosi del vescovo di Roma peraltro suona abbastanza ovvio), da ieri è il piemontese il secondo dialetto ufficialmente uscito dall'augusta bocca di un Papa. Con grande affanno dei cronisti che ieri mattina seguivano l'udienza generale in piazza san Pietro, sotto un sole rovente che non ha scoraggiato però i 30.000 e più riuniti là apposta; “esercizio” professionale mai troppo tranquillo con Francesco, data la sua “ritrosia” ad attenersi al testo scritto preparato in precedenza. Se poi per le “aggiunte” improvvisate lì per lì, come l'ispirazione gli detta senza filtro alcuno, ricorre al dialetto dei suoi avi, ecco che c'è da stare sempre all'erta.

“Acqua cheta” o roba del genere, pare dunque sia una “mugna quacia” citata, è stato dopo appurato in sala stampa vaticana. Si parlava in soldoni di non confondere “pietismo” e “pietà”, la quale è a norma di Catechismo della Chiesa cattolica il sesto dei sette doni dello Spirito Santo, temi ognuno di una catechesi alle ultime udienze generali (ora manca solo il “timor di Dio”).

Pietà, Francesco dixit, è il nostro appartenere a Dio, è “il nostro legame profondo con Lui”, che “dà senso a tutta la nostra vita e che ci mantiene saldi, in comunione con Lui, anche nei momenti più difficili e travagliati”. Non “un dovere” né un'“imposizione”, semmai “una relazione vissuta col cuore: è la nostra amicizia con Dio”, in estrema sintesi. Spesso la si associa al rendere culto a Dio nella liturgia, poiché “quando lo Spirito Santo ci fa percepire la presenza del Signore e tutto il suo amore per noi, ci riscalda il cuore e ci muove quasi naturalmente alla preghiera e alla celebrazione”; pietà, per intenderci meglio ancora, “è sinonimo di autentico spirito religioso, di confidenza filiale con Dio, di quella capacità di pregarlo con amore e semplicità che è propria delle persone umili di cuore”, ecco.

Bando però ai ricorrenti malintesi o concetti superficiali in materia, era l'avvertimento di partenza. Specie il “pietismo” è tutt'altra cosa. La differenza, per quell'attento scrutatore dei moti del cuore che è Jorge Bergoglio, sta nel “riversare” o meno sugli altri, riconoscendoli come fratelli, questo amore che Dio ci fa conoscere. Pietismo, detto da Francesco sollevando appunto lo sguardo dai fogli che aveva con sé, “è chiudere gli occhi, fare una faccia da immaginetta, far finta di essere come un santo. In piemontese noi diciamo: fare la 'mugna quacia'... questo non è il dono della pietà!”.

Chissà da quale ricordo di infanzia è riaffiorato ieri in superficie il singolare epiteto, tornando sul momento alla memoria del Bergoglio Papa argentino con radici familiari come è noto in quel di Portacomaro, provincia di Asti. “Faccia da santino”, da “immaginetta” non era invece del tutto nuovo. Sono quei toni e quelle espressioni popolari con cui, sì è ormai capito, Francesco ama “condire” il suo caratteristico predicare; senza nulla togliere, beninteso, a serietà ed importanza dei temi in gioco, semmai conferendo ad essi (ed è questo il bello!) un genuino sapore di vita reale, vera, vissuta. E così appunto reale, vera e vissuta è la pietà che lo Santo ci dona, era quel che gli stava a cuore dire. Non l'atteggiamento falsamente umile di chi esibisce con sussiego la propria presunta devozione a Dio, indifferente a chi gli sta attorno: pietà invece è “esser davvero capaci di gioire con chi è nella gioia, di piangere con chi piange, di stare vicini a chi è solo o angosciato, di correggere chi è nell’errore, di consolare chi è afflitto, di accogliere e soccorrere chi è nel bisogno...”.

Così interpretata questa polverosa parola, che oggi suona invero piuttosto antica alle orecchie del cattolico “medio”, acquista “cristianamente” il suo fascino. No insomma al pietismo delle “mugne quacie”, delle “acque chete” o che dir si voglia, in qualunque dialetto del mondo; “che lo Spirito Santo”, ha concluso Francesco e noi con lui, sottoscrivendo, “dia a tutti noi questo dono di pietà”.


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