martedì, giugno 10, 2014
Papa Francesco: no alle “cricche della corruzione” 

di Paolo Fucili

Gli agganci con le tristi ultime cronache volendo si sprecherebbero: dall'Expo di Milano 2015 al Mose di Venezia, con tutta la sacrosanta indignazione provocata (per quanto ancora?) tra la gente. Se poi Francesco sia stato ispirato oppure no da qualche notizia in specie, lui solo potrebbe confermarlo oppure no. Ma in fondo sarebbe solo un dettaglio del vigoroso, salutare scossone come il suo di oggi al malcostume della corruzione dilagante, pare ahinoi talvolta di capire, ai piani alti dei “palazzi” che contano: politica, imprenditoria, magistratura. E chissà quanti altri scandali, per uno scoperchiato, rimangono furbescamente coperti in questo “s-porco” mondo.

“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”, risuonava perciò forte e duro alla messa di oggi, sebbene piuttosto inascoltato, il severo Vangelo di Matteo alle pagine 5,1-12, per la precisione; beati, vale a dire, anche quelli che “lottano per la giustizia, perché ci sia giustizia nel mondo”, Francesco ha commentato quel profetico monito. Giacché “è tanto facile entrare nelle 'cricche' della corruzione”, in quella “politica del do ut des” (“io do perché tu dia”, più o meno significa pragmaticamente) in cui “tutto è affari”, ha esclamato quasi sconsolato; ma “quante ingiustizie! Quanta gente soffre per queste ingiustizie...”. E via di seguito con le altre sette cosiddette “beatitudini”, tutte prese in esame stamane nell'omelia pronunciata a santa Marta.

Il grande san Giovanni Paolo II una volta ebbe a definirle addirittura la “Magna charta” del cristianesimo, con annessa sottolineatura, assai meno scontata di quel che sembra, che il cristianesimo altro non è che “la” risposta, sia pure piuttosto insolita, alla domanda di felicità (“beati”) che da sempre pulsa nel cuore dell'uomo. Se così del resto non fosse, che farsene di tutta la baracca-Chiesa e relativi burattini?

Sempre in tema di carte e affini, per il successore Francesco sono una specie di “carta d'identità” del cristiano, con un parallelo forse meno altisonante, ma che bene evidenzia un fatto tutt'altro che banale anch'esso: esser cristiani davvero ha a che fare con la tua più profonda identità di persona, a seguito di un'altrettanto personale scelta.

“Beati... beati... beati...”, ripeteva appunto l'odierno Vangelo. “Se qualcuno di noi fa la domanda ‘Come si fa per diventare un buon cristiano'”, suggerisce dunque il Papa, ecco servita la risposta, tanto “semplice” a parole quanto “difficile” da mettere in pratica, giacché va “tanto controcorrente”, come negarlo?, rispetto a come abitualmente il mondo va. “Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla”, ha spronato quindi infervorandosi, per raccomandarne una frequente lettura insieme ad un altro “must” quali le sette evangeliche opere di misericordia corporale del giudizio finale di Matteo 25, ricorrenti molto spesso nella predicazione di Bergoglio.

Per primi vengono i famosi “poveri in spirito”. Torna in mente il dio “dinero”, come il Pontefice madrelingua ispanofono solitamente lo chiama tuonando contro la smodata bramosia di esso (perché altrimenti, per tornare al discorso di cui sopra, ci sarebbero tanti corrotti in giro?): “Le ricchezze non ti assicurano niente. Di più: quando il cuore è ricco, è tanto soddisfatto di se stesso, che non ha posto per la Parola di Dio”.

Poi “beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”, a dispetto del mondo che “ci dice: la gioia, la felicità, il divertimento, quello è il bello della vita. E ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia. Il mondo non vuole piangere, preferisce ignorare le situazioni dolorose...”. Non a caso il Papa batte spesso su questo dolente punto, l'indifferenza di chi ha disimparato a versare lacrime. Ma “soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore, è felice e sarà consolata”.

L'insolito “incontro” di ieri “per la pace”, è stato pudicamente chiamato, ha visto eccezionalmente ebrei, cristiani e musulmani pregare sul “cattolicissimo” suolo vaticano per invocare da Dio pace per la Terrasanta in specie. Il nostro, chiosava oggi Francesco col pensiero forse ancora rivolto a quell'evento, è “un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio”. E se io sono “mite” come la terza beatitudine raccomanda, “penseranno che sono uno stolto...”.

Quarti “beati” sono gli “affamati” e “assetati” di giustizia di cui si è detto già; quinti i misericordiosi, “quelli che perdonano, che capiscono gli errori degli altri”; sesti i puri di cuore, quelli cioè per Bergoglio “che hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella”, eccetera eccetera.

Già basta e avanza per dimostrare, come Francesco intendeva fare, quanto questo “programma di santità” (parole sue) richieda davvero una grazia da lassù per essere capito, come il Papa ha pregato concludendo le sue riflessioni, e poi possibilmente vissuto. Ma una menzione speciale la meritano infine soprattutto gli “operatori di pace”, poiché le guerre non son son solo quelle che si combattono con le armi vere e proprie. E qui si è inserito un ammonimento certo non nuovo sulla bocca di sua Santità, ma sulla cui importanza evidentemente non si ragiona mai troppo, par di capire: “è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi! Quando io sento una cosa da questo e vado da quello e la dico e anche faccio una seconda edizione un po’ allargata e la riporto…”.

Ma chi fa chiacchiere non è “beato”, poiché “non fa pace”. E se l'antifona non fosse chiara ancora, ecco il tweet papale battuto di lì a poche ore: “non sparliamo degli altri alle spalle, ma diciamo loro apertamente ciò che pensiamo”.


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