Appunti
sul Papa in visita a Cassano allo Ionio
di Paolo Fucili
Se Francesco parla di mafiosi “scomunicati”, come sabato a Sibari, al termine della visita a Cassano allo Ionio, chi mai potrà ora sminuire o peggio tacere il male che la mafia (o camorra o 'ndrangheta, comunque essa si chiami) è e fa?
Per i vescovi italiani che 25 anni fa redassero l'articolata nota “Chiesa italiana e Mezzogiorno”, obbligato tutt'ora punto di riferimento in materia, si trattava di un fenomeno certo “impressionante”, quello delle “organizzazioni criminali” (non meglio precisate) diffuse in molte lande del nostro Meridione; con la non scontata postilla che questa criminalità “viene favorita da atteggiamenti di disimpegno, passività e immoralità nella vita politico-amministrativa. C’è, infatti, una 'mafiosità' di comportamento quando ad esempio i diritti diventano favori, quando non contano i meriti ma i legami di 'comparaggio' politico...”.
Ma posto che l'omertà non è neanch'essa affatto un'“attitudine cristiana”, la conclusione fu semplicemente che “la Chiesa italiana condanna radicalmente queste organizzazioni criminose ed esorta gli uomini 'mafiosi' a una svolta nel loro comportamento”, poiché “il loro agire offende l’uomo, la società, ogni senso etico, religioso, il senso stesso dell’'onore'”, eccetera eccetera.
Ben altri furono di lì a poco i toni di Giovanni Paolo II, duro e perentorio come lui solo sapeva essere alla bisogna: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio”, tuonò rivolto ai mafiosi dal palco dove nel maggio '93 celebrò messa tra le rovine della valle dei templi di Agrigento. E la non proprio perfetta “forma” italiana testimonia da sola la forza dell'improvvisa ispirazione, accantonato il testo scritto che aveva con sé da leggere.
Passarono pochi mesi e il 15 settembre Salvatore Grigoli freddò sulla porta di casa sua un coraggioso e fino allora sconosciuto parroco palermitano, don Pino Puglisi, noto tuttavia ai “boss” del quartiere di Brancaccio per essere un “rompiscatole” (come lui stesso amava definirsi), in quel concentrato di povertà, ignoranza, illegalità diffusa, istituzioni assenti in cui la mafia prosperava. Oltre a infinite manifestazioni, iniziative e persino un ispirato film (“Alla luce del sole” di Roberto Faenza), il riconoscimento più grande glielo ha tributato la causa di beatificazione avviata nel '98 ed approdata a felice conclusione giusto l'anno scorso: don Pino è un martire (dunque beatificato pure in assenza di un miracolo per sua intercessione) perché ucciso in odio alla fede, proprio così.
Perché la mafia è “una strada di morte, incompatibile con il Vangelo”, disse a Palermo con la solita inequivocabile essenzialità Benedetto XVI, che nell'occasione del viaggio là del 3 ottobre 2010 non mancò di ricordare don Pino. E anche Francesco, all'indomani della beatificazione avvenuta il 25 maggio del 2013, lo ha menzionato dalla finestra dell'Angelus nel modo spontaneo e deciso suo consueto: “penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie... Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo! Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore!”.
Bergoglio, non contento, è il Papa che ha presenziato il 21 marzo ad un'inconsueta (per un Pontefice) veglia di preghiera per le vittime delle mafie, promossa in una parrocchia accanto al Vaticano dalla Fondazione Libera di don Ciotti, nell'apposita XIX giornata annuale “della memoria e dell'impegno” dedicata appunto a 900 e più caduti della lotta alla mafia. Là parve con evidenza a tutti assai toccato dal clima di commozione dolente eppure non rassegnata. E il monito veemente scagliato ('a braccio', anche quella volta) contro i “mafiosi” fece in un istante il giro del mondo: “convertitevi, lo chiedo in ginocchio; è per il vostro bene. Questa vita che vivete adesso, non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini mafiosi, è denaro insanguinato, è potere insanguinato, e non potrete portarlo nell’altra vita. Convertitevi, ancora c’è tempo, per non finire all’inferno!”..
La rassegna sin qui proposta di pronunciamenti del magistero pontificio ed ecclesiastico in genere contro la criminalità mafiosa magari non sarà proprio completa, sia detto a beneficio degli esclusi. Enumerare poi (e prima ancora trovarli tutti) i tanti testimoni del Vangelo che hanno lottato e lottano contro ogni genere di mafie, sopravanzerebbe di gran lunga il nostro intento: evidenziare, vale a dire, il “salto di qualità” compiuto a Sibari da Francesco rispetto a forme e pure sostanza di quanto fin lì era stato affermato dai predecessori e non solo.
L'aggancio, per così dire, era il tema dell'adorare connesso alla ricorrenza liturgica del Corpus Domini. Quando appunto non si adora Dio, “si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato!”. Detto quindi dell'impegno già prestato dalla Chiesa (che però “deve sempre più spendersi” su questo fronte), ecco la conclusione che ha fornito il titolo a tutti i giornali e tg, aggiunta ovviamente sul momento ad un passaggio dell'omelia anch'esso aggiunto poi al testo diffuso prima sotto embargo alla stampa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Per la dottrina cattolica si tratta per chi non lo sapesse della pena che separa dalla comunione ecclesiale l'autore di un delitto o peccato molto grave, impedendogli perciò di ricevere qualunque sacramento, spiega al paragrafo 1463 il Catechismo della Chiesa cattolica. E solo il Papa, il vescovo del luogo o sacerdoti da loro autorizzati possono assolvere un penitente da quei peccati (cosiddetti perciò “riservati”). A norma di diritto canonico, si va dalla profanazione dell'Eucarestia alla violenza fisica contro il Papa, all'assolvere (per i sacerdoti) un complice in peccati contro il sesto comandamento, al violare il segreto della confessione, all'apostasia, all'eresia, allo scisma, fino al procurare l'aborto. Solo in caso di pericolo di morte, affermano le dettagliatissime leggi della Chiesa, ogni sacerdote può validamente e lecitamente assolvere il pentente da questi peccati.
Stanti così le cose, ogni pronunciamento troppo “timido” o “remissivo”, da parte della Chiesa e delle sue autorità, contro ogni genere di mafia, si commenterà d'ora in poi da solo. Per non parlare di alcune “prassi” non proprio limpide del vissuto quotidiano di diocesi e parrocchie del nostro Meridione: vedi gli inchini di santi e processioni varie innanzi alle case dei boss del paese, che hanno di recente dato triste materia alle cronache, o la consuetudine dei malavitosi di farsi belli foraggiando riti e manifestazioni locali di religiosità popolare. (ma non mancano neppure, e va dato atto, fermi altolà di vescovi e conferenze episcopali a usi del genere).
Inevitabile, tornando al Papa a Cassano allo Ionio, era che la scomunica ai mafiosi occultasse tutte le altre cronache della bella giornata là trascorsa: la visita al carcere di Castrovillari, prima tappa, con incontro con padre e nonne di Nicolas Campolongo, ucciso e carbonizzato dentro un auto a tre anni, appena tre mesi fa, proprio a Cassano (“mai più vittime di 'ndrangheta”, ha sospirato Bergoglio); la visita all'hospice San Giuseppe Moscati per malati terminali, con tappe nelle stanze di ciascuno di essi; l'incontro col clero locale in cattedrale e quindi il pranzo in seminario con poveri ed ex tossicodipendenti (“forte è”, son parole del Papa, “chi una volta caduto riesce ad alzarsi”).
Infine la messa con 200.000 fedeli circa, iniziata col saluto del vescovo mons. Galantino. “La malavita organizzata”, ha detto (contribuendo, chissà, ad ispirare il Pontefice), “si nutre di soldi e malaffare, ma anche di coscienze addormentate e perciò conniventi". E fu così che, sotto il sole feroce di Calabria, Francesco tuonò...
di Paolo Fucili
Se Francesco parla di mafiosi “scomunicati”, come sabato a Sibari, al termine della visita a Cassano allo Ionio, chi mai potrà ora sminuire o peggio tacere il male che la mafia (o camorra o 'ndrangheta, comunque essa si chiami) è e fa?
Per i vescovi italiani che 25 anni fa redassero l'articolata nota “Chiesa italiana e Mezzogiorno”, obbligato tutt'ora punto di riferimento in materia, si trattava di un fenomeno certo “impressionante”, quello delle “organizzazioni criminali” (non meglio precisate) diffuse in molte lande del nostro Meridione; con la non scontata postilla che questa criminalità “viene favorita da atteggiamenti di disimpegno, passività e immoralità nella vita politico-amministrativa. C’è, infatti, una 'mafiosità' di comportamento quando ad esempio i diritti diventano favori, quando non contano i meriti ma i legami di 'comparaggio' politico...”.
Ma posto che l'omertà non è neanch'essa affatto un'“attitudine cristiana”, la conclusione fu semplicemente che “la Chiesa italiana condanna radicalmente queste organizzazioni criminose ed esorta gli uomini 'mafiosi' a una svolta nel loro comportamento”, poiché “il loro agire offende l’uomo, la società, ogni senso etico, religioso, il senso stesso dell’'onore'”, eccetera eccetera.
Ben altri furono di lì a poco i toni di Giovanni Paolo II, duro e perentorio come lui solo sapeva essere alla bisogna: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio”, tuonò rivolto ai mafiosi dal palco dove nel maggio '93 celebrò messa tra le rovine della valle dei templi di Agrigento. E la non proprio perfetta “forma” italiana testimonia da sola la forza dell'improvvisa ispirazione, accantonato il testo scritto che aveva con sé da leggere.
Passarono pochi mesi e il 15 settembre Salvatore Grigoli freddò sulla porta di casa sua un coraggioso e fino allora sconosciuto parroco palermitano, don Pino Puglisi, noto tuttavia ai “boss” del quartiere di Brancaccio per essere un “rompiscatole” (come lui stesso amava definirsi), in quel concentrato di povertà, ignoranza, illegalità diffusa, istituzioni assenti in cui la mafia prosperava. Oltre a infinite manifestazioni, iniziative e persino un ispirato film (“Alla luce del sole” di Roberto Faenza), il riconoscimento più grande glielo ha tributato la causa di beatificazione avviata nel '98 ed approdata a felice conclusione giusto l'anno scorso: don Pino è un martire (dunque beatificato pure in assenza di un miracolo per sua intercessione) perché ucciso in odio alla fede, proprio così.
Perché la mafia è “una strada di morte, incompatibile con il Vangelo”, disse a Palermo con la solita inequivocabile essenzialità Benedetto XVI, che nell'occasione del viaggio là del 3 ottobre 2010 non mancò di ricordare don Pino. E anche Francesco, all'indomani della beatificazione avvenuta il 25 maggio del 2013, lo ha menzionato dalla finestra dell'Angelus nel modo spontaneo e deciso suo consueto: “penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie... Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo! Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore!”.
Bergoglio, non contento, è il Papa che ha presenziato il 21 marzo ad un'inconsueta (per un Pontefice) veglia di preghiera per le vittime delle mafie, promossa in una parrocchia accanto al Vaticano dalla Fondazione Libera di don Ciotti, nell'apposita XIX giornata annuale “della memoria e dell'impegno” dedicata appunto a 900 e più caduti della lotta alla mafia. Là parve con evidenza a tutti assai toccato dal clima di commozione dolente eppure non rassegnata. E il monito veemente scagliato ('a braccio', anche quella volta) contro i “mafiosi” fece in un istante il giro del mondo: “convertitevi, lo chiedo in ginocchio; è per il vostro bene. Questa vita che vivete adesso, non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini mafiosi, è denaro insanguinato, è potere insanguinato, e non potrete portarlo nell’altra vita. Convertitevi, ancora c’è tempo, per non finire all’inferno!”..
La rassegna sin qui proposta di pronunciamenti del magistero pontificio ed ecclesiastico in genere contro la criminalità mafiosa magari non sarà proprio completa, sia detto a beneficio degli esclusi. Enumerare poi (e prima ancora trovarli tutti) i tanti testimoni del Vangelo che hanno lottato e lottano contro ogni genere di mafie, sopravanzerebbe di gran lunga il nostro intento: evidenziare, vale a dire, il “salto di qualità” compiuto a Sibari da Francesco rispetto a forme e pure sostanza di quanto fin lì era stato affermato dai predecessori e non solo.
L'aggancio, per così dire, era il tema dell'adorare connesso alla ricorrenza liturgica del Corpus Domini. Quando appunto non si adora Dio, “si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato!”. Detto quindi dell'impegno già prestato dalla Chiesa (che però “deve sempre più spendersi” su questo fronte), ecco la conclusione che ha fornito il titolo a tutti i giornali e tg, aggiunta ovviamente sul momento ad un passaggio dell'omelia anch'esso aggiunto poi al testo diffuso prima sotto embargo alla stampa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Per la dottrina cattolica si tratta per chi non lo sapesse della pena che separa dalla comunione ecclesiale l'autore di un delitto o peccato molto grave, impedendogli perciò di ricevere qualunque sacramento, spiega al paragrafo 1463 il Catechismo della Chiesa cattolica. E solo il Papa, il vescovo del luogo o sacerdoti da loro autorizzati possono assolvere un penitente da quei peccati (cosiddetti perciò “riservati”). A norma di diritto canonico, si va dalla profanazione dell'Eucarestia alla violenza fisica contro il Papa, all'assolvere (per i sacerdoti) un complice in peccati contro il sesto comandamento, al violare il segreto della confessione, all'apostasia, all'eresia, allo scisma, fino al procurare l'aborto. Solo in caso di pericolo di morte, affermano le dettagliatissime leggi della Chiesa, ogni sacerdote può validamente e lecitamente assolvere il pentente da questi peccati.
Stanti così le cose, ogni pronunciamento troppo “timido” o “remissivo”, da parte della Chiesa e delle sue autorità, contro ogni genere di mafia, si commenterà d'ora in poi da solo. Per non parlare di alcune “prassi” non proprio limpide del vissuto quotidiano di diocesi e parrocchie del nostro Meridione: vedi gli inchini di santi e processioni varie innanzi alle case dei boss del paese, che hanno di recente dato triste materia alle cronache, o la consuetudine dei malavitosi di farsi belli foraggiando riti e manifestazioni locali di religiosità popolare. (ma non mancano neppure, e va dato atto, fermi altolà di vescovi e conferenze episcopali a usi del genere).
Inevitabile, tornando al Papa a Cassano allo Ionio, era che la scomunica ai mafiosi occultasse tutte le altre cronache della bella giornata là trascorsa: la visita al carcere di Castrovillari, prima tappa, con incontro con padre e nonne di Nicolas Campolongo, ucciso e carbonizzato dentro un auto a tre anni, appena tre mesi fa, proprio a Cassano (“mai più vittime di 'ndrangheta”, ha sospirato Bergoglio); la visita all'hospice San Giuseppe Moscati per malati terminali, con tappe nelle stanze di ciascuno di essi; l'incontro col clero locale in cattedrale e quindi il pranzo in seminario con poveri ed ex tossicodipendenti (“forte è”, son parole del Papa, “chi una volta caduto riesce ad alzarsi”).
Infine la messa con 200.000 fedeli circa, iniziata col saluto del vescovo mons. Galantino. “La malavita organizzata”, ha detto (contribuendo, chissà, ad ispirare il Pontefice), “si nutre di soldi e malaffare, ma anche di coscienze addormentate e perciò conniventi". E fu così che, sotto il sole feroce di Calabria, Francesco tuonò...
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