Lo stallo del parlamento iracheno contro il nuovo “ordinamento” del califfato di Al Baghdadi. Mentre i parlamentari di Baghdad, eletti a fine aprile, per la seconda volta in una settimana alzavano bandiera bianca e rimandavano l’elezione del presidente al 12 agosto, il nuovo califfo dettava le regole da seguire nel corridoio da Aleppo a Diyala, sotto il controllo dell’Isil da quasi un mese.
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
NenaNews - Nella capitale le fazioni politiche hanno rinviato nuovamente la nomina del proprio presidente e, indirettamente, del nuovo esecutivo. Secondo quanto riportato da un deputato sunnita, Salim Al-Jabour, lo stallo è dovuto «alla mancanza di consenso politico». Lo scorso martedì erano stati i parlamentati sunniti e curdi a far saltare la prima sessione, abbandonando l’aula e facendo venir meno il numero legale. A due mesi dal voto e con un terzo del paese sotto il controllo di milizie islamiste, l’Iraq non ha ancora un governo ufficiale. Quello ancora in carica è bersaglio di critiche da parte della comunità internazionale e della classe politica irachena, che in ogni caso non sembra in grado di produrre un esecutivo alternativo.
Molto più organizzati appaiono i miliziani islamisti che a Mosul cominciano ad implementare la loro personale legge, i “regolamenti” del califfato. Non solo modelli di comportamento, ma anche documenti di identità: secondo alcune organizzazioni locali, lo Stato Islamico intende rilasciare passaporti ai residenti. E per fare cassa, proverà a vendere il greggio “occupato”, proveniente dai giacimenti di petrolio sotto il controllo islamista. Difficile che i jihadisti trovino compratori ufficiali, ma la sola minaccia spaventa Baghdad perché simbolo della debolezza del potere centrale. E poi c’è la Shari’a: vietato per le donne uscire di casa a meno che non sia strettamente necessario e vietato per gli uomini giocare a poker. Le sigarette costano già il doppio e c’è chi teme che metteranno al bando anche quelle.
Ma, più preoccupante, è l’utilizzo che di questa autorità sta facendo Al-Baghdadi tra Iraq e Siria: ieri dalla comunità di Shuheil, nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor, sono state espulse oltre 30mila persone. A buttarle fuori l’Isil, come aveva fatto nei giorni scorsi con i 30mila residenti delle città di Kosham e Tabia Jazeera. Oltre 60mila profughi nel giro di pochi giorni. In un video pubblicato online si vedono alcuni miliziani dettare le regole dell’espulsione: i cittadini di Shuheil devono lasciare le proprie case e le armi in loro possesso fino a quanto la stessa Isil riterrà la comunità «sicura».
Un’avanzata che sembra inarrestabile, soprattutto agli occhi di una Baghdad sempre più debole. Per difendere quanto resta dell’autorità del potere centrale, ieri l’esercito ha innalzato barricate intorno alla città di Adeim, nella provincia di Diyala, occupata dall’Isil nelle scorse settimane. Nella provincia di Ninawa a parlare, invece, sono le bombe, anche se nessuno ne rivendica il lancio. Nei giorni scorsi la città di Mosul è stata target di una serie di bombardamenti: testimoni hanno raccontato di almeno quattro case distrutte e due intere famiglie uccise. Secondo fonti mediche i morti sarebbero sette, 30 i feriti. E se un ex generale in pensione ha riferito alla stampa di aver chiaramente visto un C-130 statunitense (in dotazione all’esercito iracheno), sia il premier Nouri al-Maliki che il presidente Usa Obama hanno negato il proprio coinvolgimento nei bombardamenti.
Il caos pare allargarsi tanto da preoccupare anche l’Egitto e il nuovo presidente al-Sisi che non ha nascosto il timore di un contagio del Cairo. L’ex generale, fautore del golpe che ha deposto il presidente Morsi un anno fa, ha impiegato gli ultimi mesi nella repressione durissima e la cancellazione politica e sociale della Fratellanza Musulmana in Egitto e non intende assistere all’avanzata di un altro gruppo islamista. Il timore – ha detto Al-Sisi ieri – è quello di una spaccatura interna dell’Iraq che potrebbe danneggiare gli equilibri dell’intera regione. Il dito è puntato anche sul Kurdistan iracheno e sul suo presidente Barzani, la cui proposta di un referendum per l’indipendenza da Baghdad è stato definito dal presidente egiziano «una potenziale catastrofe».
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
NenaNews - Nella capitale le fazioni politiche hanno rinviato nuovamente la nomina del proprio presidente e, indirettamente, del nuovo esecutivo. Secondo quanto riportato da un deputato sunnita, Salim Al-Jabour, lo stallo è dovuto «alla mancanza di consenso politico». Lo scorso martedì erano stati i parlamentati sunniti e curdi a far saltare la prima sessione, abbandonando l’aula e facendo venir meno il numero legale. A due mesi dal voto e con un terzo del paese sotto il controllo di milizie islamiste, l’Iraq non ha ancora un governo ufficiale. Quello ancora in carica è bersaglio di critiche da parte della comunità internazionale e della classe politica irachena, che in ogni caso non sembra in grado di produrre un esecutivo alternativo.
Molto più organizzati appaiono i miliziani islamisti che a Mosul cominciano ad implementare la loro personale legge, i “regolamenti” del califfato. Non solo modelli di comportamento, ma anche documenti di identità: secondo alcune organizzazioni locali, lo Stato Islamico intende rilasciare passaporti ai residenti. E per fare cassa, proverà a vendere il greggio “occupato”, proveniente dai giacimenti di petrolio sotto il controllo islamista. Difficile che i jihadisti trovino compratori ufficiali, ma la sola minaccia spaventa Baghdad perché simbolo della debolezza del potere centrale. E poi c’è la Shari’a: vietato per le donne uscire di casa a meno che non sia strettamente necessario e vietato per gli uomini giocare a poker. Le sigarette costano già il doppio e c’è chi teme che metteranno al bando anche quelle.
Ma, più preoccupante, è l’utilizzo che di questa autorità sta facendo Al-Baghdadi tra Iraq e Siria: ieri dalla comunità di Shuheil, nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor, sono state espulse oltre 30mila persone. A buttarle fuori l’Isil, come aveva fatto nei giorni scorsi con i 30mila residenti delle città di Kosham e Tabia Jazeera. Oltre 60mila profughi nel giro di pochi giorni. In un video pubblicato online si vedono alcuni miliziani dettare le regole dell’espulsione: i cittadini di Shuheil devono lasciare le proprie case e le armi in loro possesso fino a quanto la stessa Isil riterrà la comunità «sicura».
Un’avanzata che sembra inarrestabile, soprattutto agli occhi di una Baghdad sempre più debole. Per difendere quanto resta dell’autorità del potere centrale, ieri l’esercito ha innalzato barricate intorno alla città di Adeim, nella provincia di Diyala, occupata dall’Isil nelle scorse settimane. Nella provincia di Ninawa a parlare, invece, sono le bombe, anche se nessuno ne rivendica il lancio. Nei giorni scorsi la città di Mosul è stata target di una serie di bombardamenti: testimoni hanno raccontato di almeno quattro case distrutte e due intere famiglie uccise. Secondo fonti mediche i morti sarebbero sette, 30 i feriti. E se un ex generale in pensione ha riferito alla stampa di aver chiaramente visto un C-130 statunitense (in dotazione all’esercito iracheno), sia il premier Nouri al-Maliki che il presidente Usa Obama hanno negato il proprio coinvolgimento nei bombardamenti.
Il caos pare allargarsi tanto da preoccupare anche l’Egitto e il nuovo presidente al-Sisi che non ha nascosto il timore di un contagio del Cairo. L’ex generale, fautore del golpe che ha deposto il presidente Morsi un anno fa, ha impiegato gli ultimi mesi nella repressione durissima e la cancellazione politica e sociale della Fratellanza Musulmana in Egitto e non intende assistere all’avanzata di un altro gruppo islamista. Il timore – ha detto Al-Sisi ieri – è quello di una spaccatura interna dell’Iraq che potrebbe danneggiare gli equilibri dell’intera regione. Il dito è puntato anche sul Kurdistan iracheno e sul suo presidente Barzani, la cui proposta di un referendum per l’indipendenza da Baghdad è stato definito dal presidente egiziano «una potenziale catastrofe».
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