mercoledì, settembre 10, 2014
Abbiamo vissuto un'estate meteorologicamente non calda ma bollente sul piano degli scenari internazionali e delle possibili ripercussioni sul nostro Paese così come sulle nostre certezze.

di Elisabetta Lo Iacono 

La preoccupazione principale è stata, o avrebbe dovuto essere, quella delle violenze e delle minacce all'Occidente e, più in generale alla libertà, da parte dell'Isis, lo Stato islamico dell'Iraq e della Siria. Un manipolo di guerriglieri jihadisti invasati che, in nome di un Dio così lontano dalla violenza, stanno cercando di imporre il loro potere con una inaudita crudeltà. Minacciando, uccidendo, perseguitando, cacciando dalle loro case, violentando le donne, prendendo in ostaggio i bambini e commettendo le peggiori crudeltà contro i cristiani, le minoranze religiose e, in senso lato, gli "infedeli".

Una guerra impari contro chi brandisce coltelli e sgozza, in video intimidatori, giornalisti che hanno come unica colpa l'appartenenza territoriale a Paesi civili che non possono tollerare simili nefandezze. La preoccupazione per questo fenomeno si è ben presto proiettata sul mondo occidentale, per più motivi: il ricordo degli attentati di nove anni fa nella metropolitana di Londra per mano di musulmani-inglesi; l'allontanamento di un considerevole numero di giovani, compreso qualcuno residente in Italia, verosimilmente arruolati in questa guerra; l'elevazione della soglia di attenzione per il nostro Paese e per Roma in primis, centro fortemente simbolico per la cristianità; il crescente dubbio che anche le nostre città potrebbero mettere a nudo una mancata e piena integrazione - al di là dei documenti in regola e di una apparente vita normale - di tanti musulmani che, a quanto pare complici anche i social network, stanno avvertendo il richiamo di un jihadismo che poteva sembrare lontano dalle loro vite.

Saltando motivi e ragioni delle varie correnti di pensiero inerenti i criteri di integrazioni o le eccessive aperture concesse, di certo assistiamo a fenomeni preoccupanti che potrebbero essere l'eco di un momento di esaltazione collettiva ma anche il sintomo del tentativo di una monopolizzazione culturale e religiosa. La vicenda della "Polizia della sharia", le ronde musulmane presentatesi per le vie della città tedesca di Wuppertal per chiedere comportamenti in linea con le prescrizioni del Corano, lasciano una scia di inquietudine.

Ecco che tutte queste vicende richiamano alla mente le istanze di rimozione, da scuole e luoghi pubblici, del crocifisso, simbolo emblematico del cristianesimo, in virtù di un rispetto per chi professa altre religioni o non è credente. Un'antica tradizione propria dei Paesi a maggioranza cristiana che viene messa in discussione in nome della laicità dello Stato e di una corsa a mostrare aperture verso i diversamente credenti. Non è però un caso che esistano zone refrattarie a certi ragionamenti ma dove la testimonianza della fede è un elemento ricorrente.

Basti pensare all'Alto Adige e alle numerose immagini sacre disseminate sul territorio. Strade e sentieri, sino alle alte cime, sono cadenzati da piccole cappelle e dalle caratteristiche edicole in legno al cui interno si trovano crocifissi, espressione di una fede alimentata quotidianamente. Lo stesso dicasi per le abitazioni private che senza tanti tentennamenti ma, anzi, con una benefica ostentazione, ospitano sulle loro facciate immagini sacre o crocifissi. Una presenza rassicurante nella giornata tanto da trovare queste icone persino in prossimità delle stalle, accompagnate da sgargianti omaggi floreali. Non credo che in quelle zone siano tutti credenti e non mi risulta che, turisti o gente estranea a quelle comunità, abbiano mai fatto pressioni sulle autorità locali, disturbati da quelle frequenti testimonianze di fede. Anzi, proprio queste sembrano essere il fulcro rispettabile della comunità, uno dei simboli che connotano un'appartenenza culturale.

Viene allora da chiedersi se quello che è venuto a mancare in maniera diffusa e in crescenti aree del nostro Paese, non sia invece un deficit di identità, con la conseguente tentazione di barattare tutto quello cui non riusciamo più a dare un valore, neppure simbolico. Moschee e chiese possono anche convivere laddove rimanga comunque ferma l'identità storica di un popolo, capace di tutelare i segni di un passato che ha comunque reso possibile l'oggi, proprio con tante libertà. Talvolta sembra che la situazioni sia sfuggita di mano e che si sia finiti per combattere se stessi, come nel vortice di una malattia autoimmune.

Tutto questo rischia di generare confusione e, per certi versi, persino di alimentare la pericolosa controparte di un razzismo che non deve avere ragione di essere in un Paese evoluto ma che, piuttosto, deve lavorare a una reale integrazione, preservando le proprie ricchezze culturali. Il problema sta, semmai, nel ritrovare il giusto bilanciamento tra la nostra identità e quella di coloro che stanno sempre più popolando il Paese, in una accoglienza che esiga innanzitutto il rispetto delle leggi e una giustizia vera per chi trasgredisce o punta a sovvertire la storia. Riscoprendo innanzitutto il baricentro della nostra identità, potremmo riprendere le redini di un carro che sembra incamminato su una strada insidiosa, dissestata da tante incertezze.


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