lunedì, settembre 29, 2014
Al termine delle sue riflessioni sul ruolo del giudice nella società che cambia, Rosario affronta lo spinoso tema della responsabilità civile dei magistrati. Un tema di rilevante gravità, dai molteplici risvolti e sfaccettature, di cui si discute proprio in questi giorni per la proposta del Governo di rivedere il sistema della responsabilità civile dei magistrati. (articolo precedente)

di Bartolo Salone

Tante cose sono cambiate, a livello legislativo, da quando Rosario consegnava queste sue considerazioni nella conferenza su “Il ruolo del giudice nella società che cambia” (Canicattì, 7 aprile 1984). In quel tempo, infatti, vigeva ancora la norma (precisamente l’art. 55 del codice di procedura civile) che limitava la responsabilità civile degli esercenti le funzioni giudiziarie ai soli danni procurati con dolo o frode o a causa di concussione, ingiustificato ritardo, rifiuto od omissione di atti d’ufficio. Norma successivamente abrogata in seguito al referendum popolare del 1987 e sostituita dalla legge Vassalli (legge 13 aprile 1988, n. 117), tuttora in vigore, che estende la responsabilità civile dei magistrati anche ai danni cagionati per colpa “grave” (quindi, non più solo per dolo, come in precedenza), sia pure nel contesto di un sistema di responsabilità “indiretta”, in base al quale il cittadino che si senta danneggiato da una decisione o iniziativa giudiziaria deve proporre l’azione di danno nei confronti dello Stato; quest’ultimo – ove condannato al risarcimento del danno – si rivarrà nei confronti del diretto responsabile nei limiti di un terzo dello stipendio annuale.

Quella individuata dal legislatore del 1988 – che il Governo si appresta in questi giorni a rivedere (nel senso di una più incisiva “responsabilizzazione” dei magistrati) – è pertanto una soluzione di compromesso, che cerca di contemperare due esigenze diverse: da un lato, l’esigenza di tutela del cittadino avverso decisioni giudiziarie arbitrarie e, dall’altro, quella altrettanto importante di garanzia dell’autonomia ed indipendenza dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione. Ed è proprio su questa seconda esigenza – di cui larga parte dell’opinione pubblica sembra essere oggi sempre meno avvertita – che il giudice Livatino si sofferma nell’illustrare il suo pensiero.

L’intervento del giudice Livatino – lo si rileva a scanso di equivoci – è circoscritto a dire il vero alla valutazione della responsabilità civile dei magistrati per i soli danni arrecati a terzi per colpa grave. E’ solo con riferimento a quest’ultima (e non alle ipotesi di danno cagionato con dolo) che il nostro giudice reputa l’introduzione della responsabilità civile “assolutamente inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili”.

In primo luogo, perché ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi e quindi è per sua natura idoneo a produrre danno. “Non esiste – riporto le sue puntuali parole – atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo. Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere”. Né la limitazione della responsabilità alle sole ipotesi di colpa grave, secondo il nostro giudice, risolve veramente il problema, contribuendo anzi ad introdurre un elemento di aleatorietà in più. Infatti, “è difficile trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la motivazione stereotipa; l’omessa convalida della perquisizione in flagranza; l’omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi”. La verità è che “la colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data l’importanza degli interessi sui quali egli dispone”.

L’altro effetto perverso che potrebbe essere indotto dall’introduzione della responsabilità civile dei magistrati è quello del conformismo interpretativo del giudice, con grave vulnus per l’indipendenza – questa volta “interna”, ossia nei confronti di altri giudici – del magistrato. E’ facile prevedere, infatti, che, per cautelarsi contro il pericolo di seccature, “il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l’autorità del precedente, che è vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diverrebbe per quello italiano fatto di interesse personale e l’art. 101 della Costituzione [il quale recita che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, n.d.A.] potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione”.

Ma l’effetto più deleterio a cui porterebbe l’introduzione di un principio di “piena” responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, secondo Rosario, sarebbe quello di un sostanziale depotenziamento e svilimento dell’azione della magistratura tutte le volte in cui questa si trovi per legge a dover intervenire sui cosiddetti “poteri forti”. Infatti, “quando la controversia toccasse affari o interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe davvero paralizzante: si pensi alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere politico. Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano tra loro e sarebbe difficile ch’egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte”.

Gli effetti più gravi, da questo punto di vista, si avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell’esercizio dell’azione penale. “Se l’organo dell’accusa – rileva il Nostro – sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai possibile trovare un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione, per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento e in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi”. L’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il magistrato – conclude Rosario – è dunque quello di punire l’azione (quale giudice, ad esempio, avrà l’ardire di imprigionare un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che potrebbero derivargliene se per caso costui venisse assolto?) e premiare al contrario l’inazione, l’inerzia e l’indifferenza professionale, a tutto vantaggio di quelle categorie sociali che “avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità”.

Benché spesso nel dibattito politico si insista – talora con accenti e toni demagogici – sulla necessità di eliminare condizioni di privilegio degli appartenenti all’ordine giudiziario, al fine di equiparare la posizione giuridica del magistrato a quella di ogni altro professionista o dipendente pubblico, sarebbe bene considerare, proprio a voler far tesoro degli insegnamenti del “piccolo giudice”, come sia proprio la specifica missione della magistratura, quale è delineata dalla nostra Costituzione, a richiedere un certo margine di “irresponsabilità” dei magistrati. Una “stretta” eccessiva sul piano della responsabilità civile, infatti, si tradurrebbe in un condizionamento più o meno diretto sull’indipendenza “esterna” ed “interna” dei magistrati. E, come afferma Livatino nelle ultime battute del suo intervento, “tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all’epoca dello Statuto albertino”.


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