martedì, febbraio 10, 2015
Si celebra oggi in Italia la dodicesima edizione del “Giorno del ricordo”, stabilito nel 2004 dal parlamento per commemorare la strage delle foibe ad opera del regime comunista di Tito e l'esodo giuliano-dalmata, avvenuti tra il '43 e il '46 al confine nordorientale. Piero Tarticchio, scrittore e pittore, esule istriano, racconta al microfono di Fabio Colagrande la tragedia di una famiglia che contò ben sette infoibati, tra i quali suo padre: 



Radio Vaticana - R. – Nel 1943, dopo l’armistizio, inizia la prima ondata di infoibamenti, nella quale fra gli altri, diciamo, martiri io annovero il primo, quel sacerdote, don Angelo Tarticchio, che venne trucidato dalle bande slavo-comuniste di Tito e subì un martirio vero e proprio, perché lo evirarono, gli cacciarono i genitali in gola, lo lapidarono, gli cacciarono sulla testa del filo di ferro spinato a mo’ di corona di spine e lo gettarono poi nella foiba… Fu poi riesumato dai Pompieri di Pola. Io mi ricordo il funerale che avvenne e naturalmente la gente che piangeva e mio padre, che mi stringeva la mano, non poteva nemmeno immaginare che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine…

D. – Perché questa barbara violenza?

R. – La violenza fu soprattutto nei confronti di coloro che avevano prestato servizio – mi sto riferendo alla prima ondata, nel ’43 – e soprattutto di coloro che avevano prestato servizio per lo Stato. Ne pagarono soprattutto il fio gli insegnanti, ma anche i bidelli, i presidi, i funzionari delle Poste, i postini, i sacerdoti, tra i quali anche don Francesco Bonifaci, che salì poi agli onori degli altari. Ma furono infoibati anche militi della Guardia di Finanzia, delle Guardie Forestali, dei Carabinieri… Questa fu la prima ondata. La seconda, invece, è quando ormai i cannoni e le mitragliatrici tacevano, perché eravamo ormai in tempo di pace, ci fu una seconda ondata, ben più nutrita se vogliamo, in cui morirono mio padre, il cugino di mio padre, il fratello di mio padre e tre parenti da parte di mia madre... L’accusa fu di essere italiani, fascisti e sfruttatori del popolo. 

D. – Sappiamo che sia la tragedia della violenza delle foibe, sia poi l’esodo sono stati un po’ dimenticati dalla storia. Perché?

R. – Per il semplice fatto che venendo via dal “paradiso” comunista di Tito, fummo accusati da quella metà dell’Italia cosiddetta “rossa” di essere tutti fascisti reazionari. Non eravamo fascisti, eravamo semplicemente degli italiani che chiedevano agli altri italiani di comprendere la loro tragedia e praticamente di farla conoscere. Purtroppo, le cose sono andate in modo differente e ci sono voluti ben 57 anni prima che l’Italia riconoscesse il diritto a noi istriani, fiumani e dalmati di entrare nella storia. Questa è stata la tragedia più grande per noi. E questo bavaglio di Stato, questo silenzio è stato per noi la vera tragedia. Io ho cercato, quando ero giovane, di dimenticare il dolore… Ma voi sapete benissimo che le persone scolpite dalle sofferenze non sono propense a parlarne troppo. Si richiudono nel loro. E questa è stata forse la cosa più difficile… Quando sono diventato vecchio – e ormai lo sono – queste cose anziché essere dimenticate riaffiorano, riemergono e diventano sempre più difficili da sopportare.


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