È salito ad almeno 115 morti il bilancio dell’attentato effettuato ieri sera dal sedicente Stato islamico a Khan Bani Saad, cittadina a nord di Baghdad, in Iraq, dove le famiglie stavano festeggiando la fine del digiuno sacro.
Radio Vaticana - Ramadan di sangue anche in Siria, quello appena concluso: l’Osservatorio nazionale per i diritti umani riferisce di oltre cinquemila vittime nell’ultimo mese. Roberta Barbi ne ha parlato con il prof. Paolo Branca, docente di Storia dei Paesi arabi e dell’Islam dell’Università Cattolica di Milano:
R. – Rattrista e spaventa il fatto che sia stato un Ramadan di sangue. Ed è un segnale molto preoccupante in quanto l’Islam ha una grande tradizione religiosa, con una sua etica che sembra non reggere più di fronte al caos attuale. Addirittura, i momenti forti dell’anno liturgico diventano un pretesto per una minoranza di fanatici per seminare terrore, soprattutto tra persone innocenti, e fomentare questa nuova divisione del Medio Oriente su faglie etniche o religiose che vorrebbe risistemare l’area dopo la sistemazione che ha avuto.
D. – L’attacco è stato in un’area della provincia di Diyala, da poco riconquistata dall’esercito iracheno e dai miliziani curdi…
R. – C’è sempre di più di mezzo questa questione o etnica con i curdi, gli arabi, i persiani, i turchi, oppure quella strettamente religiosa, quindi sunniti, sciiti. Qualcuno addirittura ricorda la pace Westfalia, il "cuius regio et eius religio", il dividersi in base alle credenze. Oggi, fare una cosa di questo genere significa mettere in conto deportazioni di massa e genocidi.
D.– Colpiscono le rivendicazioni degli attentati contro i “negazionisti”, il termine con cui gli estremisti dell’Is chiamano gli sciiti…
D. – Significa che si è arrivati a una specie di scomunica reciproca: erano famiglie islamiche differenti che hanno sempre avuto problemi, ma hanno anche saputo a lungo condividere. Adesso, si considerano gli amici peggiori, gli eretici, quindi odiati forse ancora di più degli infedeli. È molto preoccupante e molto grave che si sia arrivati a questo punto perché, ovviamente, non ci sono più limiti: quello che stai combattendo non è una persona ma è il simbolo del male assoluto e tutto sembrerebbe giustificato.
D. – Dai racconti di alcuni "foreign fighters" che sono riusciti a fuggire, emerge chiaramente che l’Is ha poco a che fare con l’Islam…
R. – Queste guerre particolari che sono le forme di terrorismo, di attacchi, di attentati, viste da lontano possono essere anche scambiate per morti di liberazione o di protesta. Quando li si vede da vicino, si constata tutta la loro disumanità. Forse è anche bene che tutte queste persone, dopo aver fatto lo sbaglio di essere partiti per dare il loro contributo a chissà quale causa, poi raccontino la verità dei fatti: che è una forma che non ha niente a che fare con nessuna religiosità, perché seminare dolore e morte non può corrispondere alla volontà di nessun Dio.
D. – Sembra che a fine giugno in alcuni attacchi in Siria l’Is abbia utilizzato gas velenosi. Siamo di fronte a un ulteriore imbarbarimento del conflitto?
R. – Ormai non ci sono limiti. Anche in Iraq, durante la guerra civile, mi raccontavano cose spaventose e anche il comportamento di certi regimi come quello di Damasco ha superato ogni immaginazione con queste bombe che mirano proprio a fare il maggior numero di vittime tra i civili. A livello puramente geopolitico, abbiamo perso l’Iraq, la Siria, la Libia e se perdiamo anche lo Yemen non so dove potremmo finire.
D. – I raid della coalizione continuano, ma non sembrano sortire molto effetto. Cosa può fare davvero la comunità internazionale?
R. – Questa coalizione anti-Is è assolutamente poco seria. In realtà, in questo "carrozzone" c’è di tutto: ci sono anche Paesi che in fondo finanziano l’Is o altri gruppi per interessi locali. Non credo che siamo ancora arrivati a una presa di coscienza di quella che è la posta in gioco e che non ci sia la volontà politica di arrivare a qualche soluzione.
Radio Vaticana - Ramadan di sangue anche in Siria, quello appena concluso: l’Osservatorio nazionale per i diritti umani riferisce di oltre cinquemila vittime nell’ultimo mese. Roberta Barbi ne ha parlato con il prof. Paolo Branca, docente di Storia dei Paesi arabi e dell’Islam dell’Università Cattolica di Milano:
R. – Rattrista e spaventa il fatto che sia stato un Ramadan di sangue. Ed è un segnale molto preoccupante in quanto l’Islam ha una grande tradizione religiosa, con una sua etica che sembra non reggere più di fronte al caos attuale. Addirittura, i momenti forti dell’anno liturgico diventano un pretesto per una minoranza di fanatici per seminare terrore, soprattutto tra persone innocenti, e fomentare questa nuova divisione del Medio Oriente su faglie etniche o religiose che vorrebbe risistemare l’area dopo la sistemazione che ha avuto.
D. – L’attacco è stato in un’area della provincia di Diyala, da poco riconquistata dall’esercito iracheno e dai miliziani curdi…
R. – C’è sempre di più di mezzo questa questione o etnica con i curdi, gli arabi, i persiani, i turchi, oppure quella strettamente religiosa, quindi sunniti, sciiti. Qualcuno addirittura ricorda la pace Westfalia, il "cuius regio et eius religio", il dividersi in base alle credenze. Oggi, fare una cosa di questo genere significa mettere in conto deportazioni di massa e genocidi.
D.– Colpiscono le rivendicazioni degli attentati contro i “negazionisti”, il termine con cui gli estremisti dell’Is chiamano gli sciiti…
D. – Significa che si è arrivati a una specie di scomunica reciproca: erano famiglie islamiche differenti che hanno sempre avuto problemi, ma hanno anche saputo a lungo condividere. Adesso, si considerano gli amici peggiori, gli eretici, quindi odiati forse ancora di più degli infedeli. È molto preoccupante e molto grave che si sia arrivati a questo punto perché, ovviamente, non ci sono più limiti: quello che stai combattendo non è una persona ma è il simbolo del male assoluto e tutto sembrerebbe giustificato.
D. – Dai racconti di alcuni "foreign fighters" che sono riusciti a fuggire, emerge chiaramente che l’Is ha poco a che fare con l’Islam…
R. – Queste guerre particolari che sono le forme di terrorismo, di attacchi, di attentati, viste da lontano possono essere anche scambiate per morti di liberazione o di protesta. Quando li si vede da vicino, si constata tutta la loro disumanità. Forse è anche bene che tutte queste persone, dopo aver fatto lo sbaglio di essere partiti per dare il loro contributo a chissà quale causa, poi raccontino la verità dei fatti: che è una forma che non ha niente a che fare con nessuna religiosità, perché seminare dolore e morte non può corrispondere alla volontà di nessun Dio.
D. – Sembra che a fine giugno in alcuni attacchi in Siria l’Is abbia utilizzato gas velenosi. Siamo di fronte a un ulteriore imbarbarimento del conflitto?
R. – Ormai non ci sono limiti. Anche in Iraq, durante la guerra civile, mi raccontavano cose spaventose e anche il comportamento di certi regimi come quello di Damasco ha superato ogni immaginazione con queste bombe che mirano proprio a fare il maggior numero di vittime tra i civili. A livello puramente geopolitico, abbiamo perso l’Iraq, la Siria, la Libia e se perdiamo anche lo Yemen non so dove potremmo finire.
D. – I raid della coalizione continuano, ma non sembrano sortire molto effetto. Cosa può fare davvero la comunità internazionale?
R. – Questa coalizione anti-Is è assolutamente poco seria. In realtà, in questo "carrozzone" c’è di tutto: ci sono anche Paesi che in fondo finanziano l’Is o altri gruppi per interessi locali. Non credo che siamo ancora arrivati a una presa di coscienza di quella che è la posta in gioco e che non ci sia la volontà politica di arrivare a qualche soluzione.
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