martedì, luglio 21, 2015
I medici dell’Istituto Pasteur di Parigi hanno presentato a Vancouver, in Canada, il caso di una ragazza affetta dal virus dell’Hiv fin dalla nascita e che oggi sta bene, pur senza terapie. La giovane ha interrotto le cure all’età di 6 anni, per volontà dei genitori, e da 12 anni il virus non si è ripresentato.  

Radio Vaticana - Secondo i dati del programma delle Nazioni Unite contro l’Aids e l’Hiv, nel mondo sono quasi 37 milioni i soggetti colpiti dal virus e più di un milione di persone sono morte nel 2014 per malattie collegate all’Aids. Sul caso presentato dai ricercatori del Pasteur, Eugenio Murrali ha intervistato Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive presso l’Istituto Superiore di Sanità:



R. – E’ sempre difficile trarre delle conclusioni da un singolo caso. La storia naturale dell’infezione da Hiv, la sua evoluzione sono estremamente articolate. Ci sono persone che sviluppano l’infezione e subito dopo la malattia, anche in forma grave, e persone che invece reagiscono meglio e che per anni non hanno praticamente sintomi. In questo caso sembrerebbe essersi verificata un’evoluzione particolarmente favorevole, perlomeno fino al momento. E’ sempre complicato, però, dire se da un caso si possa generalizzare o meno. Certamente apre un minimo di speranza, nel senso che evidentemente ci sono persone il cui organismo è in grado di reagire in maniera molto efficace.

D. – La situazione della ricerca in Italia, oggi, qual è?

R. – La ricerca sull’Aids è stata sempre molto avanzata. Naturalmente, però, negli ultimi anni abbiamo assistito a un calo delle risorse veramente enorme. In parte dovuto alla diminuzione dei fondi e in parte al fatto che evidentemente c’è meno interesse per l’Aids, grazie anche al fatto che, in qualche misura, è una malattia cronicizzata. Non è una passeggiata, come alcuni vogliono far credere, ma certamente i farmaci che sono stati messi a punto, più di 20, sono piuttosto efficaci, perlomeno nel prolungare la sopravvivenza delle persone con infezione da Hiv e nel migliorarne la qualità della vita.

D. – Il sogno di trovare un vaccino per l’Aids è sfumato o continua? 

R. – Continua sempre. E’ chiaro che ci sono investimenti: l’Ente di ricerca americano e in parte anche alcuni consorzi europei. Però c’è stata una grossa delusione, nel senso che ormai il virus è stato identificato nell’’83 – siamo praticamente a 30 anni di distanza – e non si vede ancora la messa a punto di un vaccino che sia considerato efficace. Ci sono buoni dati nella sperimentazione animale, dopo di che, quando si va sull’uomo, si vede che invece i risultati sono abbastanza poveri. E’ difficile evidentemente mettere a punto un vaccino contro una malattia cronica, dovuta a un virus che muta molto. Una persona sviluppa questi anticorpi, quindi, ma quando il virus muta essi non sono più efficaci. Bisogna, quindi, sviluppare dei vaccini che vadano a evocare risposte, che noi definiamo in gergo tecnico "cellulo-mediate”, ma questi vaccini sono estremamente difficili da mettere a punto e il successo in questi casi non è garantito.

D. – L’Unaids spera che entro il 2030 si possa mettere fine all’epidemia. E’ un obiettivo realistico?

R. – L’Unaids, così come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, devono cercare di infondere ottimismo e soprattutto fissare degli obiettivi che possano essere se non raggiungibili perlomeno vicini da raggiungere, in modo da stimolare sia l’acquisizione di risorse sia la mobilitazione di persone e di Paesi. Mi sembra difficile sconfiggere del tutto l’infezione da Hiv, anche perché l’aumento della sopravvivenza, che per fortuna c’è, ha come conseguenza però anche l’aumento della prevalenza, cioè della presenza di persone infette. Questo può avere anche delle ripercussioni sulla trasmissione, anche se è vero che più sono le persone trattate, minore è la probabilità di trasmissione dell’infezione, perché il trattamento è anche una forma di prevenzione: abbassa, infatti, la carica virale.

D. – Che diffusione, che effetti stanno avendo le terapie antiretrovirali in Africa?

R. – Certamente molto buoni rispetto al passato. L’Oms lanciò il programma di diffusione, distribuzione di farmaci antiretrovirali in Africa e il Global fund lo fece suo, finanziando questi programmi. E’ chiaro che c’è stato uno sforzo globale per aumentare le persone in trattamento, in Africa. Chiaramente l’Africa è un Paese molto grande, molto complesso, con realtà di povertà estrema e mancanza di strutture e infrastrutture. Non dappertutto, quindi, effettivamente, questi programmi hanno funzionato come avrebbero dovuto, ma rispetto al passato sicuramente si sono fatti grossi passi in avanti.


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