mercoledì, gennaio 27, 2016
Riceve i ragazzi del Seminario lombardo accompagnati dal cardinale Scola. Cita il lemma curato dal gesuita Michel de Certeau per il «Dizionario» biografico degli italiani su san Carlo Borromeo.

di Iacopo Scaramuzzi

Vatican Insider - Serve «semplicità di vita, che eviti ogni forma di doppiezza e mondanità» e «semplicità di linguaggio: non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi».
È la raccomandazione del Papa ai ragazzi del Pontificio Seminario lombardo di Roma che, accompagnati dall’arcivescovo cardinale Angelo Scola, ha ricevuto stamane in Vaticano in occasione del cinquantenario del seminario .
Francesco ha tra l’altro indicato l’esempio di san Carlo Borromeo citando la biografia che di lui scrisse per il «Dizionario» biografico degli italiani della Treccani il gesuita francese Michel de Certeau.
«L’evangelizzazione, oggi, sembra chiamata a dover nuovamente percorrere proprio la via della semplicità. Semplicità di vita, che eviti ogni forma di doppiezza e mondanità, a cui basti la comunione genuina con il Signore e con i fratelli; semplicità di linguaggio: non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi», ha detto il Papa. Un altro aspetto «essenziale» sottolineato da Francesco è «la necessità, per essere un buon sacerdote, del contatto e della vicinanza con il Vescovo». Ancora, «non giova formarsi “a compartimenti stagni”; preghiera, cultura e pastorale sono pietre portanti di un unico edificio», ha raccomandato il Papa. E poi: «Vorrei dirvi che mi rallegro non solo per il vostro proficuo impegno negli studi, ma anche per la dimensione mondiale della vostra comunità: provenite da varie regioni d’Italia, dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia e da altri Paesi europei. Vi auguro di coltivare la bellezza dell’amicizia e l’arte di stabilire relazioni, per creare una fraternità sacerdotale più forte delle diversità particolari».

Papa Paolo VI, ha sottolineato Francesco, benedisse il Seminario lombardo l’11 novembre 1965, «in modo che questa nuova casa fosse abitata al culmine del Concilio Vaticano II, nel quale i Padri percepirono fortemente che – ha proseguito Bergoglio citando la sua bolla di indizione del Giubileo, Misericordiae vultus – “abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano chiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo”. Così, negli “anni romani”, che non sono solo di studio, ma di vera e propria formazione sacerdotale, anche voi vi preparate a dare seguito a quell’impulso dello Spirito, per essere “futuro della Chiesa” secondo il cuore di Dio; non secondo le preferenze di ciascuno o le mode del momento, ma come l’annuncio del Vangelo richiede. Per prepararsi bene occorre un lavoro approfondito, ma soprattutto una conversione interiore, che quotidianamente radichi il ministero nella prima chiamata di Gesù e lo ravvivi nel rapporto personale con lui, come faceva l’apostolo Paolo, di cui oggi ricordiamo proprio la conversione».

Indicando l’esempio di san Carlo Borromeo, il Papa ha proseguito ricordando che «il padre de Certeau ha presentato la sua vita come un costante “movimento di conversione”, proteso a riflettere l’immagine del Pastore: “Egli s’identificò con questa immagine, la nutrì con la sua vita, sapendo che il discorso passa nel reale a prezzo del sangue: sanguinis ministri, erano per lui i veri preti. Egli realizzò dunque l’immagine perdendovisi. Mise tutta la sua ’passione’ a riprodurla”. Così, la grande opera dei teologi del tempo, culminata nella celebrazione del Concilio di Trento, fu attuata da Pastori santi come il Borromeo. Cari amici, siete eredi e testimoni di una grande storia di santità, che affonda le radici nei vostri patroni, i Vescovi Ambrogio e Carlo, e in tempi più recenti ha visto, pure tra gli alunni, tre Beati e tre Servi di Dio. È questa la meta a cui tendere!».

Francesco ha messo in guardia dal fatto che «spesso, però, appare sul cammino una tentazione da respingere: quella della normalità, di un Pastore a cui basta una vita “normale”. Allora questo sacerdote comincia ad accontentarsi di qualche attenzione da ricevere, giudica il ministero in base ai suoi successi e si adagia nella ricerca di ciò che gli piace, diventando tiepido e senza vero interesse per gli altri. La “normalità” per noi è invece la santità pastorale, il dono della vita. Se un sacerdote sceglie di essere solo una persona normale, sarà un sacerdote mediocre, o peggio. San Carlo desiderava Pastori che fossero servi di Dio e padri per la gente, soprattutto per i poveri».


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