domenica, marzo 20, 2016
Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”? 

 di Lorenzo Carchini

Questo il quesito referendario che si troveranno davanti gli avventori dei seggi il prossimo 17 aprile, quando gli italiani saranno chiamati a dire sì o no – ma questi, come accade sempre più spesso, non risponderanno affatto – alle attività petrolifere presenti nelle acque italiane. Sono stati li stessi promotori ad ammettere che il referendum mira ad essere principalmente un atto politico, l’occasione che gli italiani hanno per dire la propria sulla strategia energetica del governo.

Come si può notare, il quesito non fa riferimento a divieti di effettuare nuove trivellazioni, già vietate entro le 12 miglia, permesse oltre anche in caso di vittoria del Sì. La questione in gioco, al netto dell’unico quesito approvato dalla Cassazione, sta nell’occasione di cancellare una norma che legifera sul piano temporale delle concessioni di ricerca ed estrazione entro quelle 12 miglia marine. Precisamente, il comma 17 del decreto legislativo 152 stabilisce il divieto a “nuove attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi” entro le 12 miglia marine delle acque nazionali, ma stabilisce altresì che gli impianti già esistenti (entro questa soglia) potranno continuare la loro attività fino alla data di scadenza della concessione, la quale può essere prorogata fino ad esaurimento del giacimento sottostante – e qui subentrerebbero, però, dei rischi ambientali non indifferenti: la scansione dei fondali avviene per mezzo di air gun, spari ad aria compressa che comportano l’inevitabile danneggiamento della fauna marina.

La vittoria del Sì comporterebbe la chiusura entro cinque-dieci anni dei 21 impianti attualmente entro il limite, impedendo qualunque ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti alla scadenza delle concessioni in essere. Parimenti, il referendum non impedirà nuove trivellazioni (già vietate) né la costruzione di nuove piattaforme, ma esclusivamente lo sfruttamento di quelle già esistenti.

Dunque non furono gli idrocarburi, né l’inquinamento in sé, ma l’occasione politica, a lanciare la volata referendaria. Come ammettono anche dal coordinamento No-Triv, il voto del 17 Aprile è un voto immediatamente politico, in quanto, al di là della specificità del quesito esso costituisce l’unico strumento di cui i movimenti che lottano da anni per i beni comuni e per l’affermazione di maggiori diritti possono al momento disporre per dire la propria sulla Strategia Energetica nazionale.

Per la verità, un referendum di cui gli stessi promotori, nelle parole di Rossella Muroni, presidente di Legambiente, avrebbero fatto volentieri a meno, se il governo avesse posto un qualsiasi limite temporale alle estrazioni. La stessa assenza di questo limite, però, ha un significato simbolico e pratico ben preciso: al momento il Governo italiano non ha alcuna visione strategica del futuro energetico del paese, né delle sue priorità, né dei piani d’investimento o delle politiche in materia.

Un problema non nuovo, ma che ha una lunga storia alle spalle, spesso intrecciatasi con il difficile rapporto fra cittadini e politica. “Non si può scrivere il piano energetico di un paese a colpi di referendum” ha spiegato ancora la Muroni, eppure questo ci dice il recente passato. Nel 2011 fu la volta del nucleare, oggi delle trivelle.

Una situazione in cui l’Italia, ancora una volta, mette in gioco la propria posizione nel contesto internazionale, che soltanto lo scorso Dicembre si è impegnato a ridurre le emissioni di CO2 per la salvaguardia della temperatura media globale, scegliendo una via che si muove nella direzione opposta, incentivando l’estrazione d’idrocarburi, strategia che secondo i sostenitori del Sì condannerà l’Italia a rimanere ostaggio di fonti petrolifere di cui non siamo affatto ricchi e che in vasta misura importiamo.

La campagna per il Sì, però, dovrà superare le ambiguità della classica sindrome “not in my backyard”, dimostrando piuttosto di voler porre ulteriormente l’accento sulla sfida delle rinnovabili e di quelle piccole e medie imprese che hanno deciso di scommettere sull’energia pulita ed i bassi tassi di autoproduzione, fornendo peraltro lavoro a migliaia di cittadini in tutto lo Stivale.

L’estrazione, inoltre, non comporta particolari vantaggi economici per nessuno, se non per i petrolieri stessi. Per ogni operazione, infatti, le compagnie devono sì versare delle royalties, ma quelle italiane sono le più basse al mondo: appena il 7% del valore di quanto si estrae.

E si estrae pure poco. Secondo le stime del Ministero dello Sviluppo Economico, infatti, le risorse rinvenute a fronte dei consumi annui nel paese, sarebbero del tutto insufficienti, coprendo il fabbisogno nazionale di greggio annuale per appena 7 settimane e quello di gas per soli 6 mesi.

Questa la campana del Sì, ma come sempre c’è anche chi dice No.

La vittoria dei No, o semplicemente il mancato raggiungimento del quorum, comporterebbe la prosecuzione delle ricerche e delle attività petrolifere senza alcuna scadenza , fino ad esaurimento dei giacimenti, sebbene le società, dal canto loro, non potrebbero più richiedere in futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia.

Contro il referendum è stato anche fondato un comitato “Ottimisti e razionali”, presieduto da Gianfranco Borghini (ex deputato PCI e PdS) e formato da personaggi provenienti soprattutto dal mondo dell’industria e dell’impresa, fra cui illustri reduci della campagna 2011 sul nucleare (come Chicco Testa, scopertosi strenuo sostenitore delle fonti fossili).

Il comitato sostiene che l’estrazione di gas e petrolio offshore sia un modo sicuro di limitare l’inquinamento, permettendo alla produzione interna di prevenire l’arrivo di ulteriori centinaia di petroliere nei porti italiani. Inoltre, l’aspetto politico della chiamata alle urne costituirebbe lo strumento sbagliato per chiedere al governo maggiori investimenti sulle rinnovabili e l’arma per le regioni promotrici per pressare il governo in tema di autonomie e competenze locali in materia energetica.

Una vittoria del Sì, secondo gli oppositori, non solo potrebbe alla perdita di un settore d’eccellenza, ma conseguirebbe alla chiusura di impianti di aziende con fatturati da 20 miliardi di euro l’anno (Oil&Gas), aumentando le esportazioni, con evidenti rincari in bolletta.

Infine la questione occupazionale, forse la meno chiara e maggiormente abusata, da ambo le parti. Vero sì che le piattaforme Eni di Porto Garibaldi Agostino a largo di Cervia, per esempio, danno lavoro a più di settemila persone, un problema serio con tempistiche variabili e che richiederebbe l’immediato intervento del governo, finora rimasto sullo sfondo della questione.

Terza parte è proprio il governo. La scelta di parlare “con gli atti” anticipando la data al 17 Aprile, ha rischiato di avvelenare un dibattito che però, fortuna sua, mai è decollato – anzi è stato oscurato – nella Pravda mediatica, contribuendo ad una popolazione non adeguatamente informata. Una scelta anti-election day che comporterà inoltre una spesa di 370 milioni di euro, a fronte della riluttanza della Corte a ripristinare almeno due dei sei quesiti esclusi. Una gara durissima per i sostenitori del Sì, che pure qualche effetto ha sorbito: dopo la Petroceltic alle Tremiti, anche la Shell e la Transunion Petroleum (sul Golfo di Taranto e sul Canale di Sicilia) hanno deciso di non proseguire la ricerca di gas e petrolio nei nostri mari.

In tempi d’opposizione (2011) fu il Pd a sventolare la bandiera referendaria, ma stavolta riuscirà Davide, quasi da solo, a sconfiggere Golia o ne verrà schiacciato?


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