venerdì, marzo 25, 2016
È l’opinione dell’ex direttore del Sisde Mario Mori, che sull’ipotesi di attentati in Italia dice: “Pericolo più basso che in altri Paesi”. Lancia però l’allarme sulla disattenzione della politica verso l’intelligence. 

Zenit - Mentre l’opinione pubblica mondiale fa fatica ad elaborare il trauma seguito ai due attentati di Bruxelles, si rincorrono notizie sulla fuga degli attentatori rimasti in vita e si compie un vero e proprio stillicidio di analisi. Sono in tanti coloro che, forse avvalendosi del senno di poi, pronunciano giudizi sfavorevoli sull’operato delle intelligence e delle polizie europee. Dinanzi ai corpi esanimi di oltre 30 civili, ennesime vittime del terrorismo penetrato nel cuore del Vecchio Continente, ci si interroga sui presunti errori commessi da chi dovrebbe tutelare la nostra sicurezza.

ZENIT ne ha parlato con il generale Mario Mori. Ufficiale del Sid durante i difficili anni di piombo, tra i fondatori e già comandante del Ros nonché ex direttore del Sisde, Mori ha recentemente pubblicato Servizi e segreti. Introduzione allo studio dell’intelligence (ed. G-Risk, 2016), che traccia la storia dell’intelligence italiana.


Generale, nell’arco di quattro mesi il terrorismo ha compiuto due stragi nel cuore d’Europa, prima a Parigi e ora a Bruxelles. È il fallimento della cooperazione tra i servizi segreti europei? 

Non ritengo che un’affermazione simile sia totalmente accettabile. La cooperazione tra i Servizi esiste da sempre in specie per una materie come la lotta al terrorismo che a priori trova concordi molti Stati. Il problema vero in materia è dato dal fatto che le capacità di penetrazione informativa nel mondo del terrorismo islamico sono ridotte in specie per noi occidentali condizionati dalla lingua e da una cultura non facile da comprendere. A ciò si aggiunga che, colpevolmente, solo da poco il mondo musulmano è divenuto uno degli obiettivi prioritari delle varie Agenzie d’intelligence e i ritardi in materia sono recuperabili con fatica e a prezzo di conseguenze anche molto negative come i recenti avvenimenti dimostrano.



Come è stato possibile che Salah Abdeslam, il ricercato numero uno dopo gli attentati di Parigi, sia riuscito a riparare per mesi nel quartiere di Moleenbek, a Bruxelles, proprio lì dove è cresciuto e ha alimentato i suoi progetti terroristici? Esistono ormai anche in Europa delle roccaforti jihadiste impenetrabili? 

La risposta in questo caso mi pare molto semplice: Moleenbek era l’unico luogo in Europa conosciuto da Salah dove egli vantava appoggi sicuri e tali da ritenere di potere riuscire a sottrarsi alle ricerche. Questo perché in alcune nazioni europee (Francia, Belgio, ma anche Olanda e Regno Unito) esistono in alcune aree urbane delle vere e proprie enclaves dove più che la legge dello Stato ospitante vige l’applicazione quasi totale della sharia.



E in Italia? L’esperienza maturata dalla nostra intelligence negli anni di piombo offre una maggiore sicurezza? 

C’è da fare una distinzione: se si intendono le Forze di Polizia sono certo di potere sostenere che abbiamo degli organismi investigativi senz’altro all’avanguardia in Europa. Per quanto riguarda invece le agenzie d’intelligence è indubbio che esse risentono di anni di disattenzione da parte del mondo politico che non si è interessato al loro sviluppo sia sul piano tecnico che operativo. Ciò comporta un ritardo che pone i nostri Servizi in qualche difficoltà ed il recupero non è certamente facile.



È utile intensificare i bombardamenti in Medio Oriente, nei territori occupati dall’Isis? 

I bombardamenti possono provocare difficoltà alle formazioni terroristiche quali Daesh e Al Qaeda, ma per arrivare a risultati definitivi occorre l’impiego di truppe di terra e quanto prima ciò avverrà tanto prima il problema sarà risolto.



A proposito dell’Isis, di recente Lei ha affermato che “forse conviene a molti tenerlo in piedi”. La comunità internazionale avrebbe dunque gli strumenti per eliminare questa organizzazione rapidamente? A chi giova non farlo?

Le capacità militari delle maggiori potenze mondiali sono tali che un impegno serio sul terreno spazzerebbe via le truppe raccogliticce del sedicente Califfato in poco più di tre o quattro mesi. Truppe che, invece, ricavano indispensabile capacità operativa dal sostegno che da molte parti del mondo arabo, e non solo, loro giungono. Questo perché molti Paesi, per ragioni politiche, economiche o religiose sfruttano certi teatri operativi per guadagnare posizioni di vantaggio con gli Stati loro competitori. Un esempio valga per tutti: il confronto tra la sunnita Arabia Saudita e lo sciita Iran che coinvolge tutta l’area del Medio Oriente.



Tornando all’Italia. Quanto è alto il livello di rischio per il nostro Paese durante il Giubileo? 

Il rischio di un attentato che coinvolga l’Italia naturalmente esiste, ma direi che è relativamente molto più basso rispetto ad altri Paesi europei quali Francia, Belgio e Regno Unito dove la presenza ormai consolidata di cittadini con origini e cultura mussulmana è molto più consistente ed antica rispetto a quella che si verifica nel nostro territorio. Il Vaticano appare più un obiettivo di rilevante pregio propagandistico che di reale consistenza operativa.



Possibile che in nome della sicurezza si debbano sacrificare alcune libertà individuali? 

Direi che tale pericolo in Italia è da escludere. Così come abbiamo fatto con il terrorismo e la criminalità organizzata di tipo mafioso, siamo in grado di contrastare anche il terrorismo islamico con mezzi giuridici che rispettino le nostre ormai consolidate conquiste democratiche.

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