Il capitolo migranti resta il nodo caldo da risolvere per l’Europa. L’Ue ha messo a punto un piano per salvare Schengen entro novembre, ma con strumenti di sicurezza e monitoraggio dei confini; una road map che sarà presentata in un incontro informale lunedì a Bruxelles. Intanto resta alta l’emergenza migranti in Mecedonia, ai confini della quale premono ancora 12mila profughi. Sentiamo Paola Simonetti: ascolta
Radio Vaticana - “Tornare all'applicazione delle regole di Schengen mettendo fine alla politica di lasciar passare ondate migratorie sara' il primo obiettivo del vertice informale straordinario di lunedì a Bruxelles. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio europeo, Tusk, nell’invito ai 28 leader europei, per la presentazione della road map per il ripristino del sistema di libera circolazione entro la fine del 2016. Al centro la sicurezza delle frontiere esterne da gestire in modo condiviso, ed entro giugno la costituzione di un corpo europeo di guardia costiera e di confine. “Questo non risolverà la crisi ma è la pre-condizione necessaria per avere un consenso europeo – sottolinea Tusk aggiungendo che “l dovremo tutti confermare questo approccio e con ciò chiuderemo la rotta dei Balcani Occidentali" che ha permesso "880mila ingressi nel solo 2015 e 128mila nei primi due mesi di quest'anno". Intanto resta alta l’emergenza profughi ai confini con la Macedonia, dove premono più di 12mila migranti e dove la situazione umanitaria è drammatica. Difficile anche la complessa situazione della Grecia che il premier Tsipras dice di non poter risolvere da solo.
L’emergenza più scottante resta, dunque, al confine tra Grecia e Macedonia con oltre 12mila migranti intrappolati, tra rabbia e speranza. Tra loro c’è Sara Creta di Medici Senza Frontiere, che ci racconta come è al situazione:
R. – In questo momento la situazione a Idomeni è molto complicata: possiamo parlare di una crisi umanitaria, perché in un campo di transito, che è stato costruito per ospitare 1500 persone, troviamo più 10-11.000 persone intrappolate, schiacciate a questo confine, che non le lascia passare. Pochissimi di loro ce la fanno; ci sono decisioni che vengono prese in modo arbitrario; bambini molto piccoli, famiglie, uno attaccato all’altro, a volte anche costretti a dormire all’aperto perché senza tende. Vicino al confine troviamo proprio persone schiacciate, una sull’altra, che si accalcano per cercare di arrivare dall’altra parte e continuare il loro viaggio verso l’Europa.
D. – Sanzioni per chi chiude i confini, ha detto Atene, perché c’è bisogno di solidarietà. Dal tuo punto di vista, quali sono le cose più urgenti da fare?
R. – La Grecia in questo momento non ce la fa. Un campo come quello di Idomeni non può continuare ad ospitare così tante persone, per motivi di igiene e di ordine pubblico. Ieri, ad esempio, durante la distribuzione dei servizi igienici, le persone sono rimaste in coda per ore. Persone che hanno affrontato un viaggio pericoloso si trovano adesso accalcate in un posto che non è adatto ad ospitare bambini anche molto piccoli. Non possono rimanere bloccati in Grecia, devono continuare il loro viaggio: sono persone che hanno voglia di ricostruirsi un futuro.
D. – Quindi più procedure snelle, più spazi di accoglienza idonei?
R. – Dobbiamo dare a queste persone l’accoglienza e la dignità che meritano. Sono donne che hanno studiato; a Damasco, ad Aleppo, erano insegnanti. Ho incontrato degli ingegneri civili che non avrebbero lasciato il loro Paese se non fosse stato per la guerra. Sono persone che hanno bisogno di un posto idoneo dove poter riscostruire la loro vita e il loro futuro insieme alle loro famiglie.
D. – Cosa dicono loro delle loro storie, e soprattutto di quello che si aspettano anche al di là di quella frontiera?
R. – Sono tutti molto confusi, tutti molto preoccupati. Non ci sono informazioni chiare su quello che succederà. Le persone iniziano a diventare anche molto nervose e ansiose. Alcuni di loro sono qui da due, tre settimane, hanno già provato a passare il confine e sono stati respinti. E questo succede anche attraverso i Balcani: ad esempio se andiamo in Serbia o in Macedonia, troviamo altre persone bloccate, da settimane, che non sanno e non capiscono perché non possono passare. Stamattina, mentre attraversavo il campo di Idomeni, la strada che porta al campo era piena ancora di persone che camminavano, una attaccata all’altra, con le valigie, le coperte in testa, le sedie a rotelle…
D. – Quanti di loro hanno documenti e soprattutto, secondo te, esiste il problema di capire se ci sono infiltrazioni terroristiche?
R. – Molti di loro, ad esempio, si fanno mandare i documenti dalla Siria per poter attraversare il confine. Ogni mattina al campo arrivano dei postini. Quindi, più che parlare di terrorismo, dobbiamo pensare che queste persone scappano da Paesi che sono insicuri. Vedi proprio nei loro occhi la disperazione e la paura: la paura di dover tornare in un Paese che hanno lasciato, dove non hanno più nulla. Quando parli con queste persone, ti dicono: “Noi non possiamo ritornare, non abbiamo più nulla! Potremo solo pensare al nostro futuro, e chiediamo all’Europa di darcene uno”.
D. – Qualche storia che rende l’idea della drammaticità del momento…
R. – Ho incontrato ieri una donna siriana che mi raccontava di quando hanno dovuto lasciare la loro casa per partire. E mi diceva: “Quando siamo partiti, i miei bambini mi chiedevano: ‘Mamma ma dove andiamo?’”. E lei li rassicurava dicendo: “Non vi preoccupate, stiamo cercando una nuova casa, dobbiamo prendere il minimo indispensabile”. Ma li ha rassicurati dicendo loro: “Non vi preoccupate, quando saremo nella nuova casa, avremo nuovi giochi, nuovi libri”. E mi raccontava che in questi giorni i bambini continuavano a chiederle quando sarebbero andati nella “nuova casa”, e se fosse questa la “nuova casa”. Ma allora dov’erano i loro giochi e perché non c’erano i libri? Si chiedevano i bambini, che pensavano di andare in una “vera casa”, e invece: “Perché siamo in una tenda?”. Quindi questo dimostra anche quanto i bambini si trovino in una condizione di completa instabilità. E, del tutto impreparati, i Paesi non riescono a dare a queste persone l’accoglienza e la dignità che meritano.
Radio Vaticana - “Tornare all'applicazione delle regole di Schengen mettendo fine alla politica di lasciar passare ondate migratorie sara' il primo obiettivo del vertice informale straordinario di lunedì a Bruxelles. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio europeo, Tusk, nell’invito ai 28 leader europei, per la presentazione della road map per il ripristino del sistema di libera circolazione entro la fine del 2016. Al centro la sicurezza delle frontiere esterne da gestire in modo condiviso, ed entro giugno la costituzione di un corpo europeo di guardia costiera e di confine. “Questo non risolverà la crisi ma è la pre-condizione necessaria per avere un consenso europeo – sottolinea Tusk aggiungendo che “l dovremo tutti confermare questo approccio e con ciò chiuderemo la rotta dei Balcani Occidentali" che ha permesso "880mila ingressi nel solo 2015 e 128mila nei primi due mesi di quest'anno". Intanto resta alta l’emergenza profughi ai confini con la Macedonia, dove premono più di 12mila migranti e dove la situazione umanitaria è drammatica. Difficile anche la complessa situazione della Grecia che il premier Tsipras dice di non poter risolvere da solo.
L’emergenza più scottante resta, dunque, al confine tra Grecia e Macedonia con oltre 12mila migranti intrappolati, tra rabbia e speranza. Tra loro c’è Sara Creta di Medici Senza Frontiere, che ci racconta come è al situazione:
R. – In questo momento la situazione a Idomeni è molto complicata: possiamo parlare di una crisi umanitaria, perché in un campo di transito, che è stato costruito per ospitare 1500 persone, troviamo più 10-11.000 persone intrappolate, schiacciate a questo confine, che non le lascia passare. Pochissimi di loro ce la fanno; ci sono decisioni che vengono prese in modo arbitrario; bambini molto piccoli, famiglie, uno attaccato all’altro, a volte anche costretti a dormire all’aperto perché senza tende. Vicino al confine troviamo proprio persone schiacciate, una sull’altra, che si accalcano per cercare di arrivare dall’altra parte e continuare il loro viaggio verso l’Europa.
D. – Sanzioni per chi chiude i confini, ha detto Atene, perché c’è bisogno di solidarietà. Dal tuo punto di vista, quali sono le cose più urgenti da fare?
R. – La Grecia in questo momento non ce la fa. Un campo come quello di Idomeni non può continuare ad ospitare così tante persone, per motivi di igiene e di ordine pubblico. Ieri, ad esempio, durante la distribuzione dei servizi igienici, le persone sono rimaste in coda per ore. Persone che hanno affrontato un viaggio pericoloso si trovano adesso accalcate in un posto che non è adatto ad ospitare bambini anche molto piccoli. Non possono rimanere bloccati in Grecia, devono continuare il loro viaggio: sono persone che hanno voglia di ricostruirsi un futuro.
D. – Quindi più procedure snelle, più spazi di accoglienza idonei?
R. – Dobbiamo dare a queste persone l’accoglienza e la dignità che meritano. Sono donne che hanno studiato; a Damasco, ad Aleppo, erano insegnanti. Ho incontrato degli ingegneri civili che non avrebbero lasciato il loro Paese se non fosse stato per la guerra. Sono persone che hanno bisogno di un posto idoneo dove poter riscostruire la loro vita e il loro futuro insieme alle loro famiglie.
D. – Cosa dicono loro delle loro storie, e soprattutto di quello che si aspettano anche al di là di quella frontiera?
R. – Sono tutti molto confusi, tutti molto preoccupati. Non ci sono informazioni chiare su quello che succederà. Le persone iniziano a diventare anche molto nervose e ansiose. Alcuni di loro sono qui da due, tre settimane, hanno già provato a passare il confine e sono stati respinti. E questo succede anche attraverso i Balcani: ad esempio se andiamo in Serbia o in Macedonia, troviamo altre persone bloccate, da settimane, che non sanno e non capiscono perché non possono passare. Stamattina, mentre attraversavo il campo di Idomeni, la strada che porta al campo era piena ancora di persone che camminavano, una attaccata all’altra, con le valigie, le coperte in testa, le sedie a rotelle…
D. – Quanti di loro hanno documenti e soprattutto, secondo te, esiste il problema di capire se ci sono infiltrazioni terroristiche?
R. – Molti di loro, ad esempio, si fanno mandare i documenti dalla Siria per poter attraversare il confine. Ogni mattina al campo arrivano dei postini. Quindi, più che parlare di terrorismo, dobbiamo pensare che queste persone scappano da Paesi che sono insicuri. Vedi proprio nei loro occhi la disperazione e la paura: la paura di dover tornare in un Paese che hanno lasciato, dove non hanno più nulla. Quando parli con queste persone, ti dicono: “Noi non possiamo ritornare, non abbiamo più nulla! Potremo solo pensare al nostro futuro, e chiediamo all’Europa di darcene uno”.
D. – Qualche storia che rende l’idea della drammaticità del momento…
R. – Ho incontrato ieri una donna siriana che mi raccontava di quando hanno dovuto lasciare la loro casa per partire. E mi diceva: “Quando siamo partiti, i miei bambini mi chiedevano: ‘Mamma ma dove andiamo?’”. E lei li rassicurava dicendo: “Non vi preoccupate, stiamo cercando una nuova casa, dobbiamo prendere il minimo indispensabile”. Ma li ha rassicurati dicendo loro: “Non vi preoccupate, quando saremo nella nuova casa, avremo nuovi giochi, nuovi libri”. E mi raccontava che in questi giorni i bambini continuavano a chiederle quando sarebbero andati nella “nuova casa”, e se fosse questa la “nuova casa”. Ma allora dov’erano i loro giochi e perché non c’erano i libri? Si chiedevano i bambini, che pensavano di andare in una “vera casa”, e invece: “Perché siamo in una tenda?”. Quindi questo dimostra anche quanto i bambini si trovino in una condizione di completa instabilità. E, del tutto impreparati, i Paesi non riescono a dare a queste persone l’accoglienza e la dignità che meritano.
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