martedì, aprile 05, 2016
E’ stato un breve tour toscano quello del Presidente del Consiglio Regionale della Basilicata, Piero Lacorazza, arrivato in mattinata a Pisa (proseguirà il viaggio a Empoli ed infine a Firenze), per portare il messaggio referendario alle regioni italiane che non hanno partecipato in prima persona al dibattito sulle trivellazioni in mare. 

di Lorenzo Carchini 

Questo proprio nel giorno in cui il Presidente della Regione Enrico Rossi si pronunciava per il Sì intervistato per il Corriere della Sera: “Le trivelle? Voterò sì, turandomi il naso. […] Bisogna tutelare sia gli interessi nazionali, che i posti di lavoro. Ma questo non si può fare assegnando concessioni sine die”. Presentatosi poco dopo le 10 davanti al Comune toscano, Lacorazza è stato accolto dal Comitato referendario locale rivolgendo un appello agli amministratori locali affinché perorino la causa del Sì per il 17 Aprile. L’incontro pubblico, che ovviamente non ha particolarmente sconvolto il leitmotiv urbano, ci ha permesso di avvicinarlo per un breve scambio di battute.

Presidente, mesi di dibattito, una tournée partita da Milano, tra le regioni non promotrici del referendum “No-Triv”. Come potrà essere mobilitata la cittadinanza con un quesito referendario inevitabilmente monco?

“In realtà, per la maggior parte delle proposte da noi fatte (i sei quesiti originari, ndr), abbiamo già vinto, perché il governo è stato costretto a cambiare alcune norme in direzione della proposta referendaria, facendola in parte decadere. In particolare riguardo un migliore rapporto fra stato, regioni ed enti locali, la cancellazione del titolo concessorio di ricerca e di estrazione in mare e sulla terraferma come opera strategica che generava anche il vincolo preordinato all’esproprio, ovvero il rilascio di un titolo era già variante urbanistica per un comune, un centralismo inaccettabile. Su questi tre quesiti il governo ha fatto dietrofront, quindi il movimento referendario ha già vinto, su altri invece è andato parzialmente incontro alle proposte referendarie, ma non in modo soddisfacente. Per questo abbiamo presentato alla corte costituzionale il conflitto di attribuzione. Per vizio procedurale la corte ha respinto i ricorsi e purtroppo non sapremo mai nel merito chi avesse ragione, se noi o il governo. Siamo così arrivati all’ultimo quesito in gioco, che porterà gli italiani alle urne il prossimo 17 Aprile”.

C’era però il concreto rischio che l’intera campagna potesse uscire fiaccata dalle decisioni della Corte. Eppure adesso la deflagrazione dello scandalo Eni a Viggiano sembra abbia, addirittura, iperpoliticizzato il dibattito. Può questa essere una spinta decisiva al raggiungimento del fatidico quorum, anche a costo di trasformarlo in un voto sul governo?

“Al momento in cui è scoppiato il caso, con una vicenda giudiziaria che avrà il suo corso, nella mia dichiarazione non ho mai parlato di referendum, perché se dal punto di vista mediatico accende ulteriormente i riflettori su questa storia, d’altro canto non ci consente di spiegare nel merito ai cittadini di cosa stiamo parlato. Questa vicenda corre il rischio di “coprire” le ragioni che hanno portato le regioni a proporre il referendum, facendo sì che prevalga più un dibattito politico “politicista”. Le dico però anche che questo referendum è stato fortemente penalizzato. L’AGICOM ha rilevato che dal 16 Febbraio, giorno in cui è stata resa pubblica la data del voto, al 4 di Marzo – quindi la prima rilevazione – il TG1 non ha parlato neanche per un minuto del referendum, il TG2 per 7 minuti ed il TG3 per 1 minuto e 37 secondi. Avrei preferito che se ne fosse parlato di più in merito già da tempo, perché le tv ed i sistemi informativi di questo paese spiegassero ai cittadini di cosa si parla, dando loro gli strumenti necessari per orientarsi”.

Dopotutto, però, può il fine giustificare i mezzi? Se dovesse arrivare una vittoria del Sì anche tramite un voto di opposizione a Renzi piuttosto che nel merito, non sarebbe lo stesso una vittoria?

“Questo discorso non mi convince. La politicizzazione del referendum non viene dalla vicenda giudiziaria, ma dalla scelta molto dura di Renzi e di alcuni esponenti del PD, giorni scorsi, di dichiararsi in favore dell’astensione, senza un voto della direzione nazionale del partito. Lì la vicenda si è politicizzata, percorrendo una strada che rischia di allontanarci dalla questione specifica. La responsabilità, quindi, è di una parte del PD, in particolare nelle dichiarazioni di Guerini e Serracchiani, che senza un mandato dalla direzione nazionale hanno detto venti giorni fa “astenetevi”. La politicizzazione non è avvenuta con la vicenda giudiziaria, ma quando il PD ha scelto, senza un confronto politico, a cui io avrei partecipato, come regione capofila. La verità sta nel mezzo, serve la disponibilità a capire le opinioni degli altri, però ci vuole sempre un “loro” con cui discutere. Una scelta parecchio rischiosa, perché sia nel caso in cui si raggiungesse il quorum con vittoria del Sì che se invece dovesse accadere diversamente, ma comunque con milioni di italiani accorsi alle urne opponendosi al governo, purtroppo si tratterebbe anche di una sconfitta politica”.

Questo porta ad una questione successiva, ma altrettanto importante: il post-voto. Il referendum può diventare il primo passo verso l’apertura di una frattura (l’ennesima) all’interno del PD?

“Secondo me il referendum sarà, innanzitutto, un bagno di umiltà per un gruppo dirigente che dovrà ascoltare le ragioni del popolo. La questione è quale popolo? Stiamo assistendo ad una campagna referendaria molto particolare, difficile ed azzoppata, nella quale da venti giorni non c’è un manifesto, arriveranno soltanto per l’ultima settimana. In ogni caso il mio obiettivo non è mettere in discussione il governo e le dinamiche interne al partito, ma che attraverso la vittoria del SI nei prossimi mesi il governo cambi la sua strategia energetica nazionale e costruisca un maggior equilibrio tra centro e periferia, perché la torsione centralista che lo stato sta avendo a scapito delle regioni, degli enti locali e dei comuni, è un errore”.

Un’ultima battuta. Rossella Muroni ha recentemente scritto che non è possibile decidere la politica energetica di un paese “a colpi di referendum” – facendo chiaro riferimento anche al 2011 – come si trova rispetto a questa posizione?

“Il referendum è molto utile perché può segnare comunque un punto di frattura, chiamando i cittadini ad esprimersi; è dunque un atto necessario per dare un segnale politico – non tanto all’interno dei partiti – ed un senso di direzione di marcia nel nostro paese per i prossimi anni. Ma non ci illudiamo che esso possa risolvere i problemi energetici del paese: è necessario che si compiano dei passi concreti nei luoghi della politica, istituzionali, nel rapporto con i soggetti sociali, con il mondo dell’associazionismo. Così si cambia un paese”.


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