giovedì, aprile 14, 2016
Parlare di atenei in modo omogeneo è una finzione scenica, che non ha senso e che distorce gravemente la realtà 

GreenReport - Un altro riconoscimento alla qualità del nostro sistema universitario e della ricerca è venuto nei giorni scorsi dalla classifica curata da Times Higher Education, che si focalizza sulle università “giovani”, ossia quelle con meno di cinquant’anni di storia. È una classifica interessante perché coglie alcuni dinamismi importanti, come la perdurante forte vitalità dell’Europa e l’emergere delle università di quei paesi asiatici che hanno più intensamente investito nella ricerca e nell’alta formazione: Corea del Sud, Singapore, Hong Kong. In questo quadro la performance italiana appare assai positiva con ben 6 università nelle prime 150 posizioni e una, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, addirittura in decima posizione. Segnaliamo anche l’ottimo risultato dell’Università di Milano Bicocca che si colloca in ottava posizione tra le università giovanissime (quelle con meno di vent’anni di vita).

Il lettore perdonerà all’autore di questa nota, che alla Sant’Anna ha lavorato per quasi un quarto di secolo, un sentimento di orgoglio per il riconoscimento che ne viene ai suoi colleghi e che corona un percorso lungo e coraggioso di crescita. Tuttavia l’autore deve anche onestamente allertare il lettore sui forti limiti che queste classifiche hanno e che dovrebbero indurre maggiore prudenza interpretativa di quella mostrata da molti organi di stampa. È noto a tutti gli operatori del settore che il posizionamento in una delle numerose classifiche nazionali ed internazionali è oggi considerato uno strumento “irrinunciabile” di marketing, da comunicare con grande evidenza ai propri mercati di riferimento, a cominciare da quello, spesso malamente informato, costituito dai potenziali studenti e dalle loro famiglie. Si noti che molto spesso queste classifiche non si fondano su dati oggettivi e certificati, ma su un mix, talora assai ardito, di riscontri di reputazione, di soddisfazione del cliente e di dati forniti con proattiva solerzia dagli uffici di pubbliche relazioni delle singole istituzioni. Queste classifiche hanno spesso grossi problemi di metodo. Vi si accorpano realtà variegate, in cui convivono necessariamente eccellenze e performance più ordinarie.

L’informazione è quindi solo parzialmente utile: ad esempio, al futuro studente di medicina dovrebbe interessare la performance della facoltà di medicina molto più di quelle complessive dell’università, che della prima potrebbero attenuare la rilevanza o nascondere le carenze. Da questo punto di vista, le classifiche settoriali (ad esempio, quelle sulle business schools) sono decisamente più utili. Soprattutto, però, si mettono in competizione tra loro università molto differenti: per missione, per struttura, per dimensioni, per localizzazione. Parlare di università in modo omogeneo è una finzione scenica, che non ha senso e che distorce gravemente la realtà. È evidente come non sia lo stesso essere università in un paese avanzato ed in uno in via di sviluppo, così come in una regione del Centro-Nord ed in una del Sud in Italia.

Ed è altrettanto evidente che esistono vocazioni molto diverse (generaliste vs. specialistiche, orientate alla ricerca vs. orientate all’insegnamento), le quali comportano assetti differenti e prestazioni non paragonabili. Senza nulla togliere ai meriti di chi vi lavora, va riconosciuto che la stessa Scuola Superiore Sant’Anna offre un contesto molto privilegiato, in termini di risorse finanziarie disponibili, forte selezione all’entrata degli allievi, equilibrio tra impegni di docenza e di ricerca etc., che non ha riscontri nella stragrande maggioranza delle altre università italiane. Non è un caso se nella classifica mondiale relativa a tutte le università, in cui la Sant’Anna si colloca in 180ma posizione, essa venga superata solo dall’altra più antica e gloriosa “eccezione” pisana, la Scuola Normale Superiore. Il che pone esplicitamente la questione se non sia nell’interesse del Paese moltiplicare questo tipo di “eccezioni”, che hanno riscontri talmente positivi. Se è così virtuoso il caso della Scuola Sant’Anna, allora perché una sola?

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