Commette il reato di estorsione il datore di lavoro che impone ai dipendenti di firmare un contratto che prevede formalmente un orario part time, nonostante la prestazione reale abbia una durata a tempo pieno, minacciando di non assumerli in caso di rifiuto della simulazione.
"Prendere o lasciare" non è una frase che può dire il datore di lavoro: secondo la sentenza della Cassazione pubblicata ieri, minacciare i dipendenti di licenziamento se non accettano le condizioni capestro dettate dall'azienda costituisce reato di estorsione. Una sentenza che cerca di porre un argine al lavoro nero e irregolare, perseguendo l’interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione.
La fattispecie è quella tipica del datore di lavoro che costringe i futuri dipendenti ad accettare la firma di un contratto part time, pur sapendo che l’orario di lavoro effettivamente dovuto sarà a tempo pieno; contemporaneamente il datore costringe i dipendenti a firmare una lettera di dimissioni in bianco, e imponendo loro di dichiarare il falso in occasione di visite ispettive.
In questa prospettiva, spiega la Cassazione, anche l’uso strumentale di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo sia quello di forzare la volontà di un'altra persona.
Poco importa, dunque, che si tratti di un accordo fra le parti, dal momento che questo prevede volontà libere, mentre invece, nel caso dei dipendenti minacciati di perdere il lavoro, non si può parlare di alcuna libertà di scelta.
Per verificare la sussistenza del reato nel caso concreto, osserva infine la Corte, si deve tenere conto del contesto globale di timore dei dipendenti, della particolare situazione del mercato del lavoro locale (la vicenda in questione si è svolta in Sicilia, dove l’offerta supera notevolmente la domanda di lavoro) e dei comportamenti prevaricatori del datore di lavoro.
"Prendere o lasciare" non è una frase che può dire il datore di lavoro: secondo la sentenza della Cassazione pubblicata ieri, minacciare i dipendenti di licenziamento se non accettano le condizioni capestro dettate dall'azienda costituisce reato di estorsione. Una sentenza che cerca di porre un argine al lavoro nero e irregolare, perseguendo l’interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione.
La fattispecie è quella tipica del datore di lavoro che costringe i futuri dipendenti ad accettare la firma di un contratto part time, pur sapendo che l’orario di lavoro effettivamente dovuto sarà a tempo pieno; contemporaneamente il datore costringe i dipendenti a firmare una lettera di dimissioni in bianco, e imponendo loro di dichiarare il falso in occasione di visite ispettive.
In questa prospettiva, spiega la Cassazione, anche l’uso strumentale di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo sia quello di forzare la volontà di un'altra persona.
Poco importa, dunque, che si tratti di un accordo fra le parti, dal momento che questo prevede volontà libere, mentre invece, nel caso dei dipendenti minacciati di perdere il lavoro, non si può parlare di alcuna libertà di scelta.
Per verificare la sussistenza del reato nel caso concreto, osserva infine la Corte, si deve tenere conto del contesto globale di timore dei dipendenti, della particolare situazione del mercato del lavoro locale (la vicenda in questione si è svolta in Sicilia, dove l’offerta supera notevolmente la domanda di lavoro) e dei comportamenti prevaricatori del datore di lavoro.
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