Seppure il dialogo in Kuwait con i ribelli Houthi sia ripreso, l’Arabia
Saudita punta alla capitale. Raid aerei continuano a violare la tregua,
mentre il Pentagono ammette di avere uomini nel paese.
Nena News – Il negoziato yemenita è fragilissimo, ma pare
proseguire tra raid, minacce e sospensioni. E marines che arrivano nel
paese. Dopo la sospensione di domenica, con la delegazione governativa e
saudita che metteva la parola fine al dialogo con i ribelli Houthi,
martedì l’inviato Onu Ismail Ould Cheikh Ahmed ne ha annunciato la
ripresa. Si andrà avanti, ha detto, con incontri indiretti e non più
vis-à-vis.
Come gesto di buona volontà le due parti si sono accordate per un ingente scambio di prigionieri: entro 20 giorni, ovvero entro l’inizio del mese sacro di Ramadan, entrambi libereranno la metà dei prigionieri dell’avversario. Difficile quantificare: secondo il governo si tratta di migliaia di persone, secondo gli Houthi di qualche centinaia.
Ma a frenare un accordo comprensivo è la volontà saudita di piegare la resistenza Houthi. Da mesi ormai i ribelli hanno formalmente accettato la risoluzione 2266 che impone l’abbandono delle armi e il ritiro delle zone occupate. In cambio, però, vogliono garanzie e chiedono la formazione di un governo di transizione unitario e l’inclusione nel processo politico yemenita. Alle richieste mosse da mesi, Riyadh risponde con le bombe e la sospensione dei negoziati.
E a volte con le minacce, per un passo in avanti se ne fanno due indietro: la coalizione saudita ha annunciato ieri l’intenzione di lanciare un’operazione per la ripresa della capitale Sana’a, in mano agli Houthi dal settembre 2014, se il dialogo in Kuwait dovesse collassare ancora. Lo ha detto il portavoce militare della coalizione sunnita, il generale Ahmed Asiri, che ha approfittato dei microfoni per difendere l’attuale operazione: i raid sauditi sono precisi e puntano a non danneggiare i civili, dice. Una dichiarazione campata per aria, se si pensa ai siti colpiti in questo anno di guerra, ospedali, cliniche, scuole, zone residenziali, mercati, siti archeologici.
Le conseguenze sono devastanti: oltre due milioni di sfollati e un numero imprecisato di morti, con l’Onu che parla di 6.300 vittime e fonti locali di quasi 10mila. E la tregua, in teoria attiva da metà aprile, continua a essere violata: secondo quanto riportato ieri da Press Tv un bombardamento saudita ha colpito la provincia nord-ovest di Amran, uccidendo almeno due persone e ferendone nove. Colpita anche la provincia centrale di Marib.
Una tegola cade intanto anche in testa alla Casa Bianca: lo scorso fine settimana gli americani hanno scoperto di avere truppe di terra in Yemen da almeno due settimane. Il Pentagono, allora, è corso ai ripari con una spiegazione un po’ fiacca: si parla, ha detto il portavoce Peter Cook, di «un piccolo contingente» che svolge solo un ruolo «di intermediario» a favore della coalizione anti-Houthi guidata da Riyadh. I marines, aggiunge, resteranno in Yemen «per un periodo di tempo limitato». Per ora non ci sono date precise: per la legge Usa, tempi lunghi di dispiegamento di forze militari richiedono l’approvazione del Congresso.
Come gesto di buona volontà le due parti si sono accordate per un ingente scambio di prigionieri: entro 20 giorni, ovvero entro l’inizio del mese sacro di Ramadan, entrambi libereranno la metà dei prigionieri dell’avversario. Difficile quantificare: secondo il governo si tratta di migliaia di persone, secondo gli Houthi di qualche centinaia.
Ma a frenare un accordo comprensivo è la volontà saudita di piegare la resistenza Houthi. Da mesi ormai i ribelli hanno formalmente accettato la risoluzione 2266 che impone l’abbandono delle armi e il ritiro delle zone occupate. In cambio, però, vogliono garanzie e chiedono la formazione di un governo di transizione unitario e l’inclusione nel processo politico yemenita. Alle richieste mosse da mesi, Riyadh risponde con le bombe e la sospensione dei negoziati.
E a volte con le minacce, per un passo in avanti se ne fanno due indietro: la coalizione saudita ha annunciato ieri l’intenzione di lanciare un’operazione per la ripresa della capitale Sana’a, in mano agli Houthi dal settembre 2014, se il dialogo in Kuwait dovesse collassare ancora. Lo ha detto il portavoce militare della coalizione sunnita, il generale Ahmed Asiri, che ha approfittato dei microfoni per difendere l’attuale operazione: i raid sauditi sono precisi e puntano a non danneggiare i civili, dice. Una dichiarazione campata per aria, se si pensa ai siti colpiti in questo anno di guerra, ospedali, cliniche, scuole, zone residenziali, mercati, siti archeologici.
Le conseguenze sono devastanti: oltre due milioni di sfollati e un numero imprecisato di morti, con l’Onu che parla di 6.300 vittime e fonti locali di quasi 10mila. E la tregua, in teoria attiva da metà aprile, continua a essere violata: secondo quanto riportato ieri da Press Tv un bombardamento saudita ha colpito la provincia nord-ovest di Amran, uccidendo almeno due persone e ferendone nove. Colpita anche la provincia centrale di Marib.
Una tegola cade intanto anche in testa alla Casa Bianca: lo scorso fine settimana gli americani hanno scoperto di avere truppe di terra in Yemen da almeno due settimane. Il Pentagono, allora, è corso ai ripari con una spiegazione un po’ fiacca: si parla, ha detto il portavoce Peter Cook, di «un piccolo contingente» che svolge solo un ruolo «di intermediario» a favore della coalizione anti-Houthi guidata da Riyadh. I marines, aggiunge, resteranno in Yemen «per un periodo di tempo limitato». Per ora non ci sono date precise: per la legge Usa, tempi lunghi di dispiegamento di forze militari richiedono l’approvazione del Congresso.
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