Sinistra in Europa -
Oltre 13 milioni di italiani sono chiamati a rinnovare le amministrazioni comunali e a eleggere il sindaco di 1.342 comuni. Occhi puntati sulle principali città italiane. Alle 19 affluenza sotto il 50%, ma, in assenza di programmi politici, queste elezioni saranno lo specchio di un paese frammentato.
Un nuovo fantasma si aggira per l’Italia: il programmismo. A Roma come a Bologna si susseguono incontri e seminari per i menu elettorali di Ds, Margherita e Ulivo. I dirigenti ascoltano e riempiono quaderni di appunti”. Così Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” di un lontano Novembre del 2005. Un articolo famoso all'epoca e che preannunciava tutta l’afflizione di chi avrebbe dovuto poi leggere e riferire i ponderosi documenti che sarebbero stati la sintesi di tutto quel lavoro.
Oggi come allora, al centro della vicenda non ci sono tanto i futuri sindaci o le amministrazioni che essi andranno a comporre; piuttosto un singolo, che peraltro sarà toccato solo lontanamente da questo voto – e l’ha già fatto ampiamente capire.
Hic Rhodus, hic salta. Il centrosinistra renziano continuerà a trastullarsi con l’idea di essere diverso da qualunque cosa ci sia stata prima, proponendo molte ricette di rottura sul passato (ed il referendum ne è la dimostrazione), spesso in modo contraddittorio. Può questo essere un programma? E’ davvero tutta qui l’enorme mole di idee che dovremmo aspettarci ogni anno dalla Leopolda?
Sembra un film già visto, e che ci fa domandare se davvero il 2016 sarà l’ultima volta che ne vedremo la replica. Quante volte il centrosinistra ha affidato ai suoi intellettuali più prestigiosi, agli Amato e ai Salvati, l’onere di comporre le divergenze e scrivere il Programma? E quante volte quei preziosi incunaboli sono finiti dimenticati negli scaffali dei centri studi?
Vista così, Renzi si sarebbe limitato ad indicare una serie di priorità abbastanza forti da rimanere impresse nella memoria. Indicando pochi provvedimenti che si è impegnato ad approvare mettendosi in prima linea. Una strategia affatto nuova e che intorno al Nazareno era il famigerato “contrattismo”: l’impegno personale, nel quale il Premier mostra l’antica forza di saper unire e dividere insieme, propria di altri illustri predecessori.
Dobbiamo concludere che quello è il modello giusto, e che anche la sinistra dovrebbe adottare il “contrattismo”, rinunciando per sempre a vizi e virtù del “programmismo”?
Nemmeno per sogno, perché anche il contrattismo ha i suoi limiti. Entrambi, infatti, hanno tre gravi difetti, che gli elettori più attenti avvertono chiaramente. Quando i politici ci chiedono il voto, noi non possiamo accontentarci di sapere con precisione dove hanno intenzione di portare la nave. Il timoniere, infatti, deve saper anche dire chi dovrà remare di più, quale rotta e quali rischi dovranno essere affrontati e quanto unito sia l’equipaggio.
Roma città spenta d’Italia. La verità è che i candidati delle principali città chiamate oggi al voto sono di modesta levatura, poiché modesta è la classe politica attuale. Difficilmente i seggi saranno presi d’assalto. Le “non irresistibili” candidature di Fassina e Giachetti o il “renzismo meneghino” di Sala potranno anche essere armi sufficienti per accaparrarsi il Municipio, ma non possono segnare il fatidico “salto di qualità” che il paese si aspetta (o aspettava dal Premier).
Forse col referendum lo smarcamento finirà, resta il fatto che durante queste settimane non si è proposto alcun programma organico. Il clima d’incertezza, mi riferisco soprattutto alla capitale, è stato a lungo palpabile. Probabilmente, da lunedì, lascerà spazio ad un male peggiore della politica mediocre: la paura della diagnosi (e della terapia).
Renzi sa bene che il tempo stringe e che quegli impegni da onorare nei “primi cento giorni” sono la chiave del suo precario “patto di rappresentanza”. E’ la storia a suggerirglielo. I governi sono per lo più innovativi solo nei primi anni della legislatura. Dopo di che è finita, o quasi. L’ombra delle elezioni successive diventa incombente e il resto del tempo viene speso in difesa, con la preoccupazione di non disturbare alcuna lobby che conti qualcosa o di regolare conti interni al proprio partito.
Detto della morte dei programmi, è bene considerare che oggi c’è un altro fantasma che si aggira per l’Italia: che cosa ne faranno le future amministrazioni della mole di norme e nomine che i predecessori lasceranno loro in eredità?
Nelle città chiamate oggi al voto la politica nazionale si è vista allo specchio: frammentaria, tra grandi coalizzati e piccoli isolati, preda d’incertezza. A Roma, in particolare, il rischio concreto che corrono i candidati è quello di non tener conto dei vincoli temporali sopra indicati, dedicando la parte più importante della propria amministrazione ad azzerare quanto fatto dai predecessori, senza realizzare nulla di proprio.
Dunque si cancellerà tutto? Si conserverà qualcosa? La situazione emergenziale potrà essere una base da cui ripartire? La risposta è variabile. A Milano i candidati raccoglieranno un’eredità più che soddisfacente, ma a Roma la forza e l’idea amministrativa dei Cinquestelle, se mai saranno chiamati ad una sfida così difficile, resta un punto interrogativo.
Un nuovo fantasma si aggira per l’Italia: il programmismo. A Roma come a Bologna si susseguono incontri e seminari per i menu elettorali di Ds, Margherita e Ulivo. I dirigenti ascoltano e riempiono quaderni di appunti”. Così Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” di un lontano Novembre del 2005. Un articolo famoso all'epoca e che preannunciava tutta l’afflizione di chi avrebbe dovuto poi leggere e riferire i ponderosi documenti che sarebbero stati la sintesi di tutto quel lavoro.
Oggi come allora, al centro della vicenda non ci sono tanto i futuri sindaci o le amministrazioni che essi andranno a comporre; piuttosto un singolo, che peraltro sarà toccato solo lontanamente da questo voto – e l’ha già fatto ampiamente capire.
Hic Rhodus, hic salta. Il centrosinistra renziano continuerà a trastullarsi con l’idea di essere diverso da qualunque cosa ci sia stata prima, proponendo molte ricette di rottura sul passato (ed il referendum ne è la dimostrazione), spesso in modo contraddittorio. Può questo essere un programma? E’ davvero tutta qui l’enorme mole di idee che dovremmo aspettarci ogni anno dalla Leopolda?
Sembra un film già visto, e che ci fa domandare se davvero il 2016 sarà l’ultima volta che ne vedremo la replica. Quante volte il centrosinistra ha affidato ai suoi intellettuali più prestigiosi, agli Amato e ai Salvati, l’onere di comporre le divergenze e scrivere il Programma? E quante volte quei preziosi incunaboli sono finiti dimenticati negli scaffali dei centri studi?
Vista così, Renzi si sarebbe limitato ad indicare una serie di priorità abbastanza forti da rimanere impresse nella memoria. Indicando pochi provvedimenti che si è impegnato ad approvare mettendosi in prima linea. Una strategia affatto nuova e che intorno al Nazareno era il famigerato “contrattismo”: l’impegno personale, nel quale il Premier mostra l’antica forza di saper unire e dividere insieme, propria di altri illustri predecessori.
Dobbiamo concludere che quello è il modello giusto, e che anche la sinistra dovrebbe adottare il “contrattismo”, rinunciando per sempre a vizi e virtù del “programmismo”?
Nemmeno per sogno, perché anche il contrattismo ha i suoi limiti. Entrambi, infatti, hanno tre gravi difetti, che gli elettori più attenti avvertono chiaramente. Quando i politici ci chiedono il voto, noi non possiamo accontentarci di sapere con precisione dove hanno intenzione di portare la nave. Il timoniere, infatti, deve saper anche dire chi dovrà remare di più, quale rotta e quali rischi dovranno essere affrontati e quanto unito sia l’equipaggio.
Roma città spenta d’Italia. La verità è che i candidati delle principali città chiamate oggi al voto sono di modesta levatura, poiché modesta è la classe politica attuale. Difficilmente i seggi saranno presi d’assalto. Le “non irresistibili” candidature di Fassina e Giachetti o il “renzismo meneghino” di Sala potranno anche essere armi sufficienti per accaparrarsi il Municipio, ma non possono segnare il fatidico “salto di qualità” che il paese si aspetta (o aspettava dal Premier).
Forse col referendum lo smarcamento finirà, resta il fatto che durante queste settimane non si è proposto alcun programma organico. Il clima d’incertezza, mi riferisco soprattutto alla capitale, è stato a lungo palpabile. Probabilmente, da lunedì, lascerà spazio ad un male peggiore della politica mediocre: la paura della diagnosi (e della terapia).
Renzi sa bene che il tempo stringe e che quegli impegni da onorare nei “primi cento giorni” sono la chiave del suo precario “patto di rappresentanza”. E’ la storia a suggerirglielo. I governi sono per lo più innovativi solo nei primi anni della legislatura. Dopo di che è finita, o quasi. L’ombra delle elezioni successive diventa incombente e il resto del tempo viene speso in difesa, con la preoccupazione di non disturbare alcuna lobby che conti qualcosa o di regolare conti interni al proprio partito.
Detto della morte dei programmi, è bene considerare che oggi c’è un altro fantasma che si aggira per l’Italia: che cosa ne faranno le future amministrazioni della mole di norme e nomine che i predecessori lasceranno loro in eredità?
Nelle città chiamate oggi al voto la politica nazionale si è vista allo specchio: frammentaria, tra grandi coalizzati e piccoli isolati, preda d’incertezza. A Roma, in particolare, il rischio concreto che corrono i candidati è quello di non tener conto dei vincoli temporali sopra indicati, dedicando la parte più importante della propria amministrazione ad azzerare quanto fatto dai predecessori, senza realizzare nulla di proprio.
Dunque si cancellerà tutto? Si conserverà qualcosa? La situazione emergenziale potrà essere una base da cui ripartire? La risposta è variabile. A Milano i candidati raccoglieranno un’eredità più che soddisfacente, ma a Roma la forza e l’idea amministrativa dei Cinquestelle, se mai saranno chiamati ad una sfida così difficile, resta un punto interrogativo.
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