sabato, giugno 04, 2016
L'ex campione dei pesi massimi era ricoverato da giovedì: il 9 aprile la sua ultima apparizione pubblica. Considerato tra i più grandi sportivi di sempre è stato un simbolo dell'America nera. Tyson: "Dio si è preso il suo campione".

di Lorenzo Carchini

Complicazioni respiratorie, aggravate dal Parkinson: è morto a 74 anni Muhammad Ali, ex campione del mondo dei pesi massimi, forse il più grande sportivo di sempre. L'ex Cassius Clay, che ha lasciato la boxe nel 1981, era apparso per l'ultima volta in pubblico il 9 aprile a Phoenix per la cena delle Celebrity Fight Night: indossava occhiali scuri e sembrava indebolito .

Una vita nel pugilato, oltre il pugilato. The Greatest non era mai banale. Dietro la sua ombra si muovevano milioni di "Negroes", vivendo con orgoglio la propria blackness, in prima linea contro la "linea del colore" che a lungo ha caratterizzato la storia americana.

Immenso sul ring, il suo bersaglio preferito fu sempre quell'America bianca, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di "onorare" la patria nella follia del Vietnam: "Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro". L'ennesima scelta "contro" che gli valse la perdita della licenza e del titolo negli anni '60.

Sbocciato durante le Olimpiadi di Roma nel 1960, il titolo mondiale sarebbe arrivato solo 4 anni più tardi, con la schiacciante vittoria sul brutale Sonny Liston, nella notte del pugno che nessuno vide e che ancora oggi agita i pensieri degli appassionati.

Lo Showman. Zaire, 1974. Alì approda all'aeroporto di Kinshasa e viene accolto come il liberatore di un intero continente. Il simbolo dell'America e dell'Africa Nera, unite nei suoi occhi da leone e l'energia dei suoi pugni. La sua macchina solcava le strade polverose e sterrate, tra le nuvole i volti dei piccoli neri lanciavano il loro grido di implorazione: "Ali boma ye" ("Ali uccidilo").

Foreman, l'avversario, era un gigante venuto dal Texas non meno nero di lui, eppure vittima dei giochi psicologici che solo i più grandi dello sport riescono a manovrare. Il match fu durissimo, avrebbe raccontato lo stesso Alì: "George faceva male, ogni suo colpo qualche danno lo provocava sempre, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso". Ma il fenomeno di Louisville, Kentucky, era lì, pronto a pungere il gigante texano, come un'ape, danzando elegantemente sul ring.

Una vita da leggenda, anche nella malattia. Atlanta, 1996. 15 anni dopo aver appeso i guantoni al chiodo, eccolo di nuovo sul ring contro l'avversario più difficile. Il Parkinson è alle corde contro quel coraggio di non nascondere la propria malattia, da una fragilità nuova in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno.

Parkinson che non gli impedì neppure di assistere all'ultimo saluto al rivale di sempre Joe Frazier, l'uomo che lo sconfisse nella notte del Madison Square Garden nel 1971. Ma i flashback sono innumerevoli, dal massacro di Manila nel 1975, quando smokin' Joe si ritirò soltanto dopo 14 riprese giocate alla morte, fino all'ultima sconfitta contro Larry Holmes, a 38 anni.

Immortale. Un personaggio a cui nessuno può rimanere indifferente; immortale simbolo del XX secolo. Soggetto di film, libri ed opere artistiche. Capace di scrivere la storia di uno sport da sempre sinonimo di riscatto sociale, capace di puntare i riflettori mediatici su realtà che l'Occidente, in particolare negli Stati Uniti, tende a dimenticare. Un'eredità pesantissima che nessuno, dalla figlia Laila, campionessa di Supermedi, a Mike Tyson, sono mai riusciti a raccogliere pienamente. Troppo Alì.


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