Sterlina ai minimi storici, borse europee che prevedono in giornata cali almeno del 14%, rating prossimo al ribasso, crescita dello spread. Qualunque scenario più cupo ipotizzato negli ultimi mesi sembra dunque avverarsi. La Commissione Europea si è riunita in un vertice d’emergenza ed anche in Italia le operazioni politiche sono al momento bloccate, in attesa di conoscere ulteriori sviluppi dalla terra d’Albione.
di Lorenzo Carchini
Sinistra in Europa - Nel bel mezzo dello squarcio nel cielo dell’Unione Europea che ha caratterizzato questa mattina, le notizie si rincorrono a velocità elevatissima. Tutto il modello europeo è ora in discussione, intanto il governo britannico si scioglie come neve al sole, Cameron annuncia le dimissioni in conferenza stampa, davanti al portone nero di Downing Street ed il mercato crolla.
Molti escono da questa lotta referendaria con le ossa rotte. Non solo il governo conservatore, ma anche il partito laburista, con il leader Corbyn che si era espresso a favore del "Remain", ma che evidentemente non è stato ascoltato dalla base del partito. Secondo le prime stime, almeno il 45% dell’elettorato rosso avrebbe, infatti, votato in favore dell’uscita dall'Unione.
La geografia del voto pone una lettura decisiva da studiare sin da subito: Londra e la Scozia hanno votato con forza a favore del "Remain", mentre il settentrione del Paese e il Galles hanno spostato l’asse della storia europea di qualche migliaio di voti, abbastanza per dare corpo all'Independence day invocato da Boris Johnson e da Nigel Farage. È un voto anti-Londra sempre più distante dal resto del Paese, un voto della piccola Inghilterra rurale contro quella metropolitana.
Si profilano così scenari geopolitici e socioeconomici che solo ora stiamo scorgendo in tutta la loro drammaticità e che toccano tutto il mondo occidentale. La transizione probabilmente non sarà veloce, ma a questo punto sembra certa. Abbastanza perché lo stesso Corbyn invochi, stamane, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, firmato nel 2007.
È la famosa, e temuta, clausola di recesso volontario ed unilaterale di un paese dall'Unione.
A livello procedurale, il paese dell’UE che decide di recedere deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese.
Tale accordo è concluso a nome dell’Unione europea (UE) dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
I trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine.
Qualsiasi Stato uscito dall'Unione può, tuttavia, chiedere di aderirvi nuovamente, presentando una nuova procedura di adesione.
I passaggi tecnici sono adesso segnati, si profila un’inedita kermesse diplomatica che accompagnerà l’intero percorso.
L'Unione europea dovrà accettare la notifica del Regno Unito e aprire le trattative: sarà il Consiglio europeo (capi di Stato e di governo, senza il Regno Unito) a dare, all'unanimità, il via libera ai negoziati per scrivere quello che passa sotto il nome di "accordo di recesso". Teoricamente, non si può dare per scontato l’esito.
Solo col sì del Consiglio europeo potranno partire le trattative tra Unione europea e Regno Unito per l’uscita di Londra dall'Unione, da più di mezzo secolo di normative comunitarie che si condensano nei 358 articoli del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dai 55 articoli del Trattato sull'Unione europea, firmato a Maastricht nel 1992, che contiene i principi generali e storici dal Trattato di Roma in poi.
La legge europea prevede che ci siano due anni di tempo per firmare l’accordo di uscita: passati i due anni i Trattati decadono. In quel caso per evitare il completo vuoto legislativo si dovrebbe decidere (alla unanimità) una proroga. Londra, durante tutto il negoziato, che potrebbe arrivare fino a dieci anni, sarebbe coperta dallo European Community Act del 1972 che resterebbe in vigore durante tutto l’arco delle trattati.
A questo punto, anche la storia dell’inglese come lingua comunitaria rischia di essere messo in discussione. L’esempio è quello irlandese, con l’adozione del gaelico come lingua ufficiale. Così come sarà necessario stabilire che fine faranno i funzionari britannici a Bruxelles e l'Agenzia europea per i medicinali oggi con sede a Londra.
E poi? E poi si avvierà l’epoca dei rapporti bilaterali, un salto indietro di quasi un secolo, nel quale si dovranno ridefinire le relazioni tra Bruxelles e Londra. I modelli oggi conosciuti sono 3, riferiti a Norvegia, Svizzera e Canada.
Il modello norvegese prevede una libera circolazione e persino beneficio di fondi comunitari per la ricerca; con l’handicap però che Oslo non può mettere becco sull'approvazione delle direttive, cioè non partecipa al processo legislativo. Un soluzione che sarebbe addirittura meno favorevole agli euroscettici britannici, rispetto alle concessioni della Ue a Cameron del febbraio scorso: queste ultime limitano infatti la circolazione delle persone, mentre il trattato con Oslo prevede completa libertà.
Il modello svizzero, invece, presenta dei rapporti esclusivamente bilaterali con l’Unione europea, non permette la partecipazione allo “spazio economico europeo”, ma beneficia dell’area di libera circolazione definita da queste intese.
In ultimo, il modello canadese consterebbe di un semplice accordo commerciale, nel quale gli inglesi dovrebbero rinegoziare in posizione di svantaggio e da soli gli oltre 100 trattati su dazi e omologazione dei prodotti ai quali avevano aderito in virtù della rappresentanza collettiva della Ue.
Per il resto, non tutte le materie cadranno fuori dai trattati internazionali concordati nel tempo: è questo il caso del fisco con i protocolli Ocse, ma anche per trasporti e aviazione civile. La partita più delicata resta quella della finanziaria: il Regno Unito, oltre a subire i contraccolpi per la perdita di capitali, una volta finalizzato il recesso non parteciperebbe più a Commissione, Consiglio Ue e Parlamento e alle autorità di vigilanza europee (Eba, Esma e Eiopa) e dunque ai processi decisionali che conducono all'adozione della normativa finanziaria.
di Lorenzo Carchini
Sinistra in Europa - Nel bel mezzo dello squarcio nel cielo dell’Unione Europea che ha caratterizzato questa mattina, le notizie si rincorrono a velocità elevatissima. Tutto il modello europeo è ora in discussione, intanto il governo britannico si scioglie come neve al sole, Cameron annuncia le dimissioni in conferenza stampa, davanti al portone nero di Downing Street ed il mercato crolla.
Molti escono da questa lotta referendaria con le ossa rotte. Non solo il governo conservatore, ma anche il partito laburista, con il leader Corbyn che si era espresso a favore del "Remain", ma che evidentemente non è stato ascoltato dalla base del partito. Secondo le prime stime, almeno il 45% dell’elettorato rosso avrebbe, infatti, votato in favore dell’uscita dall'Unione.
La geografia del voto pone una lettura decisiva da studiare sin da subito: Londra e la Scozia hanno votato con forza a favore del "Remain", mentre il settentrione del Paese e il Galles hanno spostato l’asse della storia europea di qualche migliaio di voti, abbastanza per dare corpo all'Independence day invocato da Boris Johnson e da Nigel Farage. È un voto anti-Londra sempre più distante dal resto del Paese, un voto della piccola Inghilterra rurale contro quella metropolitana.
Si profilano così scenari geopolitici e socioeconomici che solo ora stiamo scorgendo in tutta la loro drammaticità e che toccano tutto il mondo occidentale. La transizione probabilmente non sarà veloce, ma a questo punto sembra certa. Abbastanza perché lo stesso Corbyn invochi, stamane, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, firmato nel 2007.
È la famosa, e temuta, clausola di recesso volontario ed unilaterale di un paese dall'Unione.
A livello procedurale, il paese dell’UE che decide di recedere deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese.
Tale accordo è concluso a nome dell’Unione europea (UE) dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
I trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine.
Qualsiasi Stato uscito dall'Unione può, tuttavia, chiedere di aderirvi nuovamente, presentando una nuova procedura di adesione.
I passaggi tecnici sono adesso segnati, si profila un’inedita kermesse diplomatica che accompagnerà l’intero percorso.
L'Unione europea dovrà accettare la notifica del Regno Unito e aprire le trattative: sarà il Consiglio europeo (capi di Stato e di governo, senza il Regno Unito) a dare, all'unanimità, il via libera ai negoziati per scrivere quello che passa sotto il nome di "accordo di recesso". Teoricamente, non si può dare per scontato l’esito.
Solo col sì del Consiglio europeo potranno partire le trattative tra Unione europea e Regno Unito per l’uscita di Londra dall'Unione, da più di mezzo secolo di normative comunitarie che si condensano nei 358 articoli del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dai 55 articoli del Trattato sull'Unione europea, firmato a Maastricht nel 1992, che contiene i principi generali e storici dal Trattato di Roma in poi.
La legge europea prevede che ci siano due anni di tempo per firmare l’accordo di uscita: passati i due anni i Trattati decadono. In quel caso per evitare il completo vuoto legislativo si dovrebbe decidere (alla unanimità) una proroga. Londra, durante tutto il negoziato, che potrebbe arrivare fino a dieci anni, sarebbe coperta dallo European Community Act del 1972 che resterebbe in vigore durante tutto l’arco delle trattati.
A questo punto, anche la storia dell’inglese come lingua comunitaria rischia di essere messo in discussione. L’esempio è quello irlandese, con l’adozione del gaelico come lingua ufficiale. Così come sarà necessario stabilire che fine faranno i funzionari britannici a Bruxelles e l'Agenzia europea per i medicinali oggi con sede a Londra.
E poi? E poi si avvierà l’epoca dei rapporti bilaterali, un salto indietro di quasi un secolo, nel quale si dovranno ridefinire le relazioni tra Bruxelles e Londra. I modelli oggi conosciuti sono 3, riferiti a Norvegia, Svizzera e Canada.
Il modello norvegese prevede una libera circolazione e persino beneficio di fondi comunitari per la ricerca; con l’handicap però che Oslo non può mettere becco sull'approvazione delle direttive, cioè non partecipa al processo legislativo. Un soluzione che sarebbe addirittura meno favorevole agli euroscettici britannici, rispetto alle concessioni della Ue a Cameron del febbraio scorso: queste ultime limitano infatti la circolazione delle persone, mentre il trattato con Oslo prevede completa libertà.
Il modello svizzero, invece, presenta dei rapporti esclusivamente bilaterali con l’Unione europea, non permette la partecipazione allo “spazio economico europeo”, ma beneficia dell’area di libera circolazione definita da queste intese.
In ultimo, il modello canadese consterebbe di un semplice accordo commerciale, nel quale gli inglesi dovrebbero rinegoziare in posizione di svantaggio e da soli gli oltre 100 trattati su dazi e omologazione dei prodotti ai quali avevano aderito in virtù della rappresentanza collettiva della Ue.
Per il resto, non tutte le materie cadranno fuori dai trattati internazionali concordati nel tempo: è questo il caso del fisco con i protocolli Ocse, ma anche per trasporti e aviazione civile. La partita più delicata resta quella della finanziaria: il Regno Unito, oltre a subire i contraccolpi per la perdita di capitali, una volta finalizzato il recesso non parteciperebbe più a Commissione, Consiglio Ue e Parlamento e alle autorità di vigilanza europee (Eba, Esma e Eiopa) e dunque ai processi decisionali che conducono all'adozione della normativa finanziaria.
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