Si conclude a Bologna l’ottava edizione del Festival Francescano. Un viaggio nel cuore della riconciliazione a partire dalla predicazione del Poverello di Assisi.
Radio Vaticana - Secondo i racconti dell’epoca con le sue parole faceva “spegnere le inimicizie e gettare le fondamenta di nuovi atti di pace”. Ieri mattina l’intervento dell’arcivescovo mons. Matteo Zuppi sul tema “Quando perdonare è difficile”. Il servizio di Luca Tentori. ascolta
Fa un certo effetto sentire parlare di perdono a Bologna, in piazza Maggiore, testimone del dolore di tante sciagure.
La storia recente della città dagli eccidi di Monte Sole alla strage della stazione, da Ustica all’Italicus, hanno lasciato ferite che bruciano ancora. Ma l’arcivescovo, mons. Matteo Zuppi, ci ha provato ieri mattina al Festival Francescano.
“Per certi versi è proprio il perdono che ci chiede ancora di più di perseverare ancora di più nella giustizia, ma disinquinata dall’odio, libera dalla vendetta, e proprio per questo, a mio parere, ancora più forte”.
Ha così liberato subito il campo dagli equivoci mons. Zuppi nel suo intervento. Perdono non vuol dire rinunciare alla giustizia. Parole pesanti se la verità per molte vittime è ancora lontana. Il suo discorso non spiega concetti astratti ma storie, spesso segnate dal sangue, che hanno saputo perdonare al di là di ogni credenza religiosa e appartenenza geografica. Nelson Mandela, Giovanni Bachelet, don Pino Puglisi, i monaci di Tibhirine, Annalena Tonelli.
“Spesso perdonare è difficile non è mai un fatto automatico. E’ sempre anche un itinerario e una scelta ma credo che però convenga sempre. Qualche volta lo capiamo con difficoltà, prevale la ferita. A volte non perdoniamo perché sembra un’ingiustizia perdonare: un tradimento a noi stessi o altri che hanno subito le offese del male, i colpi del male”.
La vita lo ha portato a essere mediatore per la Comunità di Sant’Egidio nella guerra civile del Mozambico in cui l’amnistia e il perdono sono stati gli unici modi per ricominciare. Ora a Bologna, a sorpresa, nuove esperienze come il contatto con uno dei capi della banda della “Uno bianca”, che negli anni Novanta terrorizzarono l’intera regione.
“Mi ha scritto uno di loro. Abbiamo una conversazione, e lì ho capito come effettivamente il perdono è un itinerario faticoso ma che bisogna cercare perché non viene da solo. E’ l’unica via per evitare che le offese all’umanità operate dal male restino o anzi peggiorino”.
Lo sguardo è andato infine al terrorismo che insanguina l’Europa, e non solo, in questi ultimi terribili mesi.
“Stiamo insieme, la casa comune è una. C’è poco da fare e quindi dobbiamo reimparare a vivere insieme. Questa è la vera sfida, per cui non c’è pace senza il perdono. Altrimenti siamo condannati a ripeterlo, perché il male non è inerte e perché c’è una memoria dell’odio che si trasmette, a volte, per generazioni”.
Fa un certo effetto sentire parlare di perdono a Bologna, in piazza Maggiore, testimone del dolore di tante sciagure.
La storia recente della città dagli eccidi di Monte Sole alla strage della stazione, da Ustica all’Italicus, hanno lasciato ferite che bruciano ancora. Ma l’arcivescovo, mons. Matteo Zuppi, ci ha provato ieri mattina al Festival Francescano.
“Per certi versi è proprio il perdono che ci chiede ancora di più di perseverare ancora di più nella giustizia, ma disinquinata dall’odio, libera dalla vendetta, e proprio per questo, a mio parere, ancora più forte”.
Ha così liberato subito il campo dagli equivoci mons. Zuppi nel suo intervento. Perdono non vuol dire rinunciare alla giustizia. Parole pesanti se la verità per molte vittime è ancora lontana. Il suo discorso non spiega concetti astratti ma storie, spesso segnate dal sangue, che hanno saputo perdonare al di là di ogni credenza religiosa e appartenenza geografica. Nelson Mandela, Giovanni Bachelet, don Pino Puglisi, i monaci di Tibhirine, Annalena Tonelli.
“Spesso perdonare è difficile non è mai un fatto automatico. E’ sempre anche un itinerario e una scelta ma credo che però convenga sempre. Qualche volta lo capiamo con difficoltà, prevale la ferita. A volte non perdoniamo perché sembra un’ingiustizia perdonare: un tradimento a noi stessi o altri che hanno subito le offese del male, i colpi del male”.
La vita lo ha portato a essere mediatore per la Comunità di Sant’Egidio nella guerra civile del Mozambico in cui l’amnistia e il perdono sono stati gli unici modi per ricominciare. Ora a Bologna, a sorpresa, nuove esperienze come il contatto con uno dei capi della banda della “Uno bianca”, che negli anni Novanta terrorizzarono l’intera regione.
“Mi ha scritto uno di loro. Abbiamo una conversazione, e lì ho capito come effettivamente il perdono è un itinerario faticoso ma che bisogna cercare perché non viene da solo. E’ l’unica via per evitare che le offese all’umanità operate dal male restino o anzi peggiorino”.
Lo sguardo è andato infine al terrorismo che insanguina l’Europa, e non solo, in questi ultimi terribili mesi.
“Stiamo insieme, la casa comune è una. C’è poco da fare e quindi dobbiamo reimparare a vivere insieme. Questa è la vera sfida, per cui non c’è pace senza il perdono. Altrimenti siamo condannati a ripeterlo, perché il male non è inerte e perché c’è una memoria dell’odio che si trasmette, a volte, per generazioni”.
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