domenica, ottobre 16, 2016
Chiunque vincerà le elezioni americane dovrà fare i conti con la Russia, e non sarà semplice. In gioco ci sono le relazioni fra due dei principali colossi mondiali. Per i russi, se Donald Trump è considerato un uomo privo di risposte, Hillary Clinton preoccupa ancora di più per la sua storia. Le elezioni viste dagli Urali.

di Lorenzo Carchini

L'ultima volta che un sondaggio indipendente, quello di Levada, ha analizzato le opinioni dei russi sui candidati presidenziali statunitensi era Agosto. Appena il 12% affermò di seguire la corsa con interesse, ben il 73% ammetteva di averne soltanto sentito parlare. Tra coloro che maggiormente avevano seguito la vicenda, il 39% vedeva in Trump il miglior presidente nell'interesse russo, solo il 15% per Hillary. Dati che confermavano le previsioni ufficiali di Luglio: il 34% degli "informati" prevedeva dei rapporti Usa-Russia migliori sotto il tycoon newyorkese, piuttosto che con l'ex First Lady (6%).

In parte, questa percezione è un figlia della macchina propagandistica di Vladimir Putin, che ha sempre concesso una maggior copertura mediatica a Trump per due semplici ragioni. Innanzitutto, la tv di stato sostiene apertamente qualsiasi corrente populista nei paesi occidentali, considerandoli dei fattori d'indebolimento di quell'establishment post-muro, da tempo avversa al leader russo. In secondo luogo perché Putin e Clinton si odiano apertamente, con la candidata che in più occasioni lo ha definito un "bullo" della politica internazionale, un agente Kgb arricchito, un uomo a sangue freddo, fino a sostenere i gruppi di protesta esplosi nel 2011.

Eppure proprio sul rapporto Putin-Clinton si avvita l'ostracismo russo verso l'intera visione del mondo Occidentale.

La posizione finora espressa da Hillary sulla Russa è figlia di un'ideologia piuttosto semplicistica. Considerando che mai come oggi una campagna elettorale post-Guerra Fredda ha mai avuto così al centro del dibattito il vecchio nemico, l'ex Segretario di Stato ha definito Putin come "il grande padrino di quest'ondata di nazionalismo estremo" - una definizione che ha messo un po' insieme tutti i partiti anti-immigrazione d'Europa. In effetti, se dovessimo prendere sul serio l'ideologia "conservatrice" intellettuale alla quale mira da tempo la propaganda del leader russo, una simile descrizione troverebbe perfino fondamento. Ma, nella terra del Generale Inverno, niente deve essere preso troppo sul serio.

L'ideologia interna al paese, basata da Cristianesimo Ortodosso ed imperialismo patriottico, è superficiale ed inconsistente. Appena il 4% dei russi va regolarmente in chiesa, sebbene si consideri ortodosso il 72%. Imporre dei valori "fondamentalisti" ad una società ancora memore dell'ostracismo religioso sovietico, con tassi di aborti tre volte maggiori che in America, con enormi porzioni di popolazione musulmana e buddista, risulta difficile se non impossibile.

Putin, che ha recentemente donato il suo stipendio mensile al museo ebraico di Mosca, che ha aperto innumerevoli moschee, alla prova dei fatti non può essere considerato un alleato delle correnti nazionaliste europee. I partiti populisti di destra parlano con toni sprezzanti dei musulmani, cercando di isolarli e ghettizzarli, quando possibile, nelle città europee; la Russia ha intere regioni nelle quali le leggi russe vengono applicate solo se coerenti con le tradizioni religiose locali.

Quando arrivò al potere, Putin non aveva avuto difficoltà a far suo il solito minestrone di neoliberismo economico post-sovietico, internazionalismo e venerazione della storia russa, ancorché riscritta dall'Urss. Se, alla fine, ha acquistato questa venerazione dal nazionalismo di destra europeo, la colpa è in gran parte negli errori dei leader occidentali che, proprio come Hillary, hanno cercato di posizionare la realtà russa in uno scacchiere, senza però riuscirci. Dal crollo del Muro, il paese più che a un orso assomiglia sempre più ad un camaleonte, capace di mutare colore in ogni momento. Questo è ciò che è successo anche col suo odierno "conservatorismo": sedersi dove c'è posto.

Intanto, negli Stati Uniti siamo in piena campagna elettorale. Hillary ha sempre adoperato in pubblico un approccio "democracy good, dictatorship bad". Cosa significa questo nella pratica? In Ucraina contrastare Putin potrebbe significare prendere per buona la linea che il presidente Poroshenko sta cercando di vendere all'Occidente - ovvero che il suo governo sia l'ultima legione davanti alla piaga russa. Dunque che fare? Armare l'Ucraina col rischio di inasprire il confitto, che prevedibilmente vedrebbe truppe russe in marcia verso Kiev?

In Siria, il presidente Bashar al-Assad è un dittatore e per di più alleato di Putin. La Clinton ha più volte spinto Barack Obama ad essere maggiormente risoluto nella sua rimozione, aiutando l'opposizione siriana. Ma che succederebbe se la futuribile presidente usasse la forza diretta contro Assad? Putin eviterebbe un confronto militare diretto con gli Usa? Probabilmente no: molti generali russi aspetterebbero questo momento da anni, sin dalle fasi di riarmo del paese. E se il confronto dovesse avvenire, in Medio Oriente, le conseguenze potrebbero essere ancor più imprevedibili che in Ucraina.

Finora l'amministrazione Obama si è tenuta fuori da un confronto diretto col leader russo, ma, dalla Russia, l'impressione è che Putin abbia capito a che gioco stiano giocando e si sia convinto a fare lui la prima mossa, senza attendere una risposta statunitense, se non a parole. La prossima amministrazione, così, sarà chiamata ad agire in qualche modo e le soluzioni sono tre.

Una è quella del pragmatismo: rimuovere quella linea rossa ideologica, permettendo alla Russia di rimanere i Crimea e ad Assad di governare sulla Siria, avvicinarsi sul fronte della lotta all'Isis. La seconda è quella muscolare, forzando la situazione su entrambi gli scenari al prezzo di un confronto militare con l'avversario, magari augurandosi che quest'ultimo desista. La terza è quella di inasprire le sanzioni economiche ed attendere il collasso economico del regime, evitando l'uso diretto della forza.

La paura dei russi, rispetto all'elezione di Hillary, è proprio che la prima donna presidente degli Stati Uniti, scelga una combinazione delle ultime due. Questo porterebbe Putin a rafforzare l'isteria anti-occidentale nel paese, fino a lanciare subito il guanto di sfida, prima del collasso economico. La politica del leader russo ha già mostrato di non conoscere retromarce. L'ultimatum di questa settimana sono la prova di un'escalation concreta. Riscaldare la Guerra Fredda, più di vent'anni dopo che la si credeva conclusa definitivamente avrebbe conseguenze letali sotto ogni punto di vista.

Alla prova della realpolitik. la Clinton non ha convinto e questo ce lo dice la storia, come il tentato "reset" del 2009. Per questo i russi tra i due preferirebbero Trump - un outsider imprevedibile e, per definizione, pericoloso - ma ancor di più un terzo leader, più flessibile, bravo sia col bastone che con la carota. Purtroppo, finora, questa figura non si è palesata.


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