Dopo l’approvazione della risoluzione dell’Onu 2334, il premier israeliano cerca di impedire nuove mosse di Obama al Palazzo di Vetro. Il ministro della difesa Lieberman paragona la conferenza di pace di Parigi del 15 gennaio al Processo Dreyfus.
NenaNews - Israele continua a dare sportellate all’Amministrazione Obama e alle Nazioni Unite.
E valuta le conseguenze concrete della risoluzione 2334 approvata la scorsa settimana dal Consiglio di Sicurezza grazie alla “storica” astensione degli Stati Uniti che hanno rinunciato, per la prima volta da diversi anni a questa parte, ad usare il diritto di veto a difesa di Israele.
Non ci sono più freni. L’attacco che il premier Netanyahu e il suo governo portano al presidente americano uscente è frontale, aperto, esplicito. Ripetono che Obama ha messo in atto un «complotto», una vendetta – che Washington invece nega – e avvertono che il presidente Usa potrebbe avere altre «sorprese in serbo» dopo aver aperto la strada all’approvazione della risoluzione che riafferma lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e la illegalità delle colonie israeliane.
«Presenteremo le prove alla nuova Amministrazione (Trump) tramite i canali appropriati. Se vorranno condividerle con il popolo americano, potranno farlo», ha annunciato con tono minaccioso l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, in un’intervista alla Cnn. Due giorni fa, nel giorno di Natale, Netanyahu – in qualità di ministro degli esteri – aveva convocato e rimproverato gli ambasciatori, presenti nel Paese, degli Stati che hanno votato a favore della risoluzione – Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Egitto, Giappone, Ucraina, Angola e Uruguay – e messo in chiaro che Israele comunque non la rispetterà. Ieri il primo ministro ha proclamato che Israele «non porgerà l’altra guancia».
Picchia duro il ministro della difesa e leader dell’ultradestra Avigdor Lieberman che ieri è arrivato al punto da descrivere la conferenza multilaterale di pace di Parigi del prossimo 15 gennaio – organizzata da Hollande per rilanciare i negoziati ma alla quale Israele non intende partecipare – ad un incontro di antisemiti. Quella conferenza è «Un tribunale contro Israele», ha tuonato Lieberman. «Non è una Conferenza di pace – ha incalzato – ma qualcosa il cui scopo è danneggiare la sicurezza di Israele e la sua reputazione».
Infine Lieberman ha paragonato l’iniziativa francese al Processo Dreyfus: «Con una differenza: invece di un solo ebreo oggi (sul banco degli imputati) c’è l’intero Stato ebraico». Quindi è arrivato l’annuncio. Il Comune di Gerusalemme domani con ogni probabilità darà il via a un progetto per la costruzione di 618 case per coloni. Il nuovo piano è stato deciso in passato ma la municipalità è decisa a portarlo avanti in questo momento per ribadire il controllo di Israele su tutta Gerusalemme, incluso il settore palestinese occupato nel 1967.
L’altro giorno il quotidiano Israel HaYom, megafono del primo ministro, aveva anticipato che saranno tirati fuori dal cassetto progetti edilizi per 5.600 appartamenti da realizzare a Gerusalemme Est nelle colonie israeliane, definite da tanti media, anche italiani, “rioni” o “quartieri” sebbene siano insediamenti coloniali per la legge internazionale.
La cortina di fumo che il premier Netanyahu e il suo governo hanno sollevato intorno all’accaduto, ha lo scopo di prevenire un nuovo colpo di coda di Obama. I quotidiani israeliani scrivono che John Kerry presto pronuncerà il suo ultimo discorso da segretario di stato. In quella occasione potrebbe esporre la visione dell’Amministrazione uscente per la questione palestinese in modo da condizionare le scelte future di Donald Trump, in particolare su Gerusalemme. Sono soltanto voci. Netanyahu però, dopo l’astensione Usa all’Onu, le prende molto sul serio. Non è escluso che Washington possa (indirettamente) facilitare l’intervento della Corte Penale Internazionale che sino ad oggi ha svolto solo indagini preliminari nei Territori occupati sulle denunce di crimini di guerra rivolte dai palestinesi allo Stato ebraico.
Tuttavia si deve tenere conto che Israele non ha rispettato diverse risoluzioni del CdS contro la colonizzazione senza pagare alcuna conseguenza, grazie alla protezione garantita dagli Usa. Inoltre, notava ieri l’analista Yonah Jeremy Bob, la risoluzione 2334 non è stata approvata nel contesto del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite che avrebbe aperto la strada a un dibattito su eventuali sanzioni economiche contro Israele.
Il danno perciò è limitato. Netanyahu in ogni caso alza la voce e batte i pugni sul tavolo perché il CdS da lungo tempo non riaffermava la illegalità delle colonie e dell’occupazione e questo mette in pericolo i progetti, cari al ministro ultrazionalista Naftali Bennett, volti a mettere in soffitta la soluzione dei Due Stati (Israele e Palestina) e ad annettere subito a Israele le porzioni della Cisgiordania con le maggiori concentrazioni di colonie israeliane. In poche parole è rispontato fuori il diritto internazionale quando il governo Netanyahu pensava di averlo affossato.
Michele Giorgio è su Twitter: @michelegiorgio2
NenaNews - Israele continua a dare sportellate all’Amministrazione Obama e alle Nazioni Unite.
E valuta le conseguenze concrete della risoluzione 2334 approvata la scorsa settimana dal Consiglio di Sicurezza grazie alla “storica” astensione degli Stati Uniti che hanno rinunciato, per la prima volta da diversi anni a questa parte, ad usare il diritto di veto a difesa di Israele.
Non ci sono più freni. L’attacco che il premier Netanyahu e il suo governo portano al presidente americano uscente è frontale, aperto, esplicito. Ripetono che Obama ha messo in atto un «complotto», una vendetta – che Washington invece nega – e avvertono che il presidente Usa potrebbe avere altre «sorprese in serbo» dopo aver aperto la strada all’approvazione della risoluzione che riafferma lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e la illegalità delle colonie israeliane.
«Presenteremo le prove alla nuova Amministrazione (Trump) tramite i canali appropriati. Se vorranno condividerle con il popolo americano, potranno farlo», ha annunciato con tono minaccioso l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, in un’intervista alla Cnn. Due giorni fa, nel giorno di Natale, Netanyahu – in qualità di ministro degli esteri – aveva convocato e rimproverato gli ambasciatori, presenti nel Paese, degli Stati che hanno votato a favore della risoluzione – Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Egitto, Giappone, Ucraina, Angola e Uruguay – e messo in chiaro che Israele comunque non la rispetterà. Ieri il primo ministro ha proclamato che Israele «non porgerà l’altra guancia».
Picchia duro il ministro della difesa e leader dell’ultradestra Avigdor Lieberman che ieri è arrivato al punto da descrivere la conferenza multilaterale di pace di Parigi del prossimo 15 gennaio – organizzata da Hollande per rilanciare i negoziati ma alla quale Israele non intende partecipare – ad un incontro di antisemiti. Quella conferenza è «Un tribunale contro Israele», ha tuonato Lieberman. «Non è una Conferenza di pace – ha incalzato – ma qualcosa il cui scopo è danneggiare la sicurezza di Israele e la sua reputazione».
Infine Lieberman ha paragonato l’iniziativa francese al Processo Dreyfus: «Con una differenza: invece di un solo ebreo oggi (sul banco degli imputati) c’è l’intero Stato ebraico». Quindi è arrivato l’annuncio. Il Comune di Gerusalemme domani con ogni probabilità darà il via a un progetto per la costruzione di 618 case per coloni. Il nuovo piano è stato deciso in passato ma la municipalità è decisa a portarlo avanti in questo momento per ribadire il controllo di Israele su tutta Gerusalemme, incluso il settore palestinese occupato nel 1967.
L’altro giorno il quotidiano Israel HaYom, megafono del primo ministro, aveva anticipato che saranno tirati fuori dal cassetto progetti edilizi per 5.600 appartamenti da realizzare a Gerusalemme Est nelle colonie israeliane, definite da tanti media, anche italiani, “rioni” o “quartieri” sebbene siano insediamenti coloniali per la legge internazionale.
La cortina di fumo che il premier Netanyahu e il suo governo hanno sollevato intorno all’accaduto, ha lo scopo di prevenire un nuovo colpo di coda di Obama. I quotidiani israeliani scrivono che John Kerry presto pronuncerà il suo ultimo discorso da segretario di stato. In quella occasione potrebbe esporre la visione dell’Amministrazione uscente per la questione palestinese in modo da condizionare le scelte future di Donald Trump, in particolare su Gerusalemme. Sono soltanto voci. Netanyahu però, dopo l’astensione Usa all’Onu, le prende molto sul serio. Non è escluso che Washington possa (indirettamente) facilitare l’intervento della Corte Penale Internazionale che sino ad oggi ha svolto solo indagini preliminari nei Territori occupati sulle denunce di crimini di guerra rivolte dai palestinesi allo Stato ebraico.
Tuttavia si deve tenere conto che Israele non ha rispettato diverse risoluzioni del CdS contro la colonizzazione senza pagare alcuna conseguenza, grazie alla protezione garantita dagli Usa. Inoltre, notava ieri l’analista Yonah Jeremy Bob, la risoluzione 2334 non è stata approvata nel contesto del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite che avrebbe aperto la strada a un dibattito su eventuali sanzioni economiche contro Israele.
Il danno perciò è limitato. Netanyahu in ogni caso alza la voce e batte i pugni sul tavolo perché il CdS da lungo tempo non riaffermava la illegalità delle colonie e dell’occupazione e questo mette in pericolo i progetti, cari al ministro ultrazionalista Naftali Bennett, volti a mettere in soffitta la soluzione dei Due Stati (Israele e Palestina) e ad annettere subito a Israele le porzioni della Cisgiordania con le maggiori concentrazioni di colonie israeliane. In poche parole è rispontato fuori il diritto internazionale quando il governo Netanyahu pensava di averlo affossato.
Michele Giorgio è su Twitter: @michelegiorgio2
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