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lunedì, gennaio 24, 2011

Shalom, pace a te!

Raffaela Corrias intervista per La Perfetta Letizia Manuela Dviri, scrittrice italiana che vive in Israele, dove lotta e combatte per la pace (clicca qui per il file audio dell'intervista)

Manuela Dviri è una scrittrice italiana che vive in Israele dal 1968. Perde suo figlio Jonathan il 26 febbraio 1998, vittima in uno scontro con Hezbollah in Libano. Da allora, inizia ad esprimere tutto il suo dissenso alla politica del governo e rilascia le prime dichiarazioni sulla inutilità e la stupidità di una guerra condotta fuori dai confini del paese, pubblicando tre infuocate lettere di protesta indirizzate all'allora primo ministro Benjamin Netanyahu. Dopo pochi mesi lascia il lavoro per dedicarsi completamente alla sua personale e dura campagna per la vita e contro la guerra, chiedendo il ritiro dell'esercito israeliano dal territorio libanese. La campagna, che verrà poi ricordata come quella delle “Quattro Madri”, è coronata da successo.
... (continua)
martedì, novembre 09, 2010

La Città Vecchia vista da Monte Scopus

La nostra corrispondente da Gerusalemme Raffaela Corrias ha intervistato per la Perfetta Letizia Hana Bendcowsky, Program Director del “Jerusalem Center for Jewish-Christian Relations”

D - Hana, oggi sei Program Director del Centro per le relazioni ebraico-cristiane di Gerusalemme e guida turistica che accompagna gli ebrei a visitare e conoscere i luoghi santi per il Cristianesimo. Qual è stato il percorso che ti ha portata a impegnarti per un dialogo tra la realtà ebraica e quella cristiana locale?

R - Sono nata in una famiglia ebrea ortodossa e sono stata educata in una scuola religiosa. Ricevere un’educazione di questo tipo significa studiare la legge ebraica e praticarla. In concreto vuol dire rispettare lo Shabbat, mangiare kosher e progredire nella conoscenza dei nostri testi sacri. Non sapevo nulla di Cristianesimo perché nelle nostre scuole, che siano religiose o meno, non rientra nelle materie di studio. Viaggiavo molto con la mia famiglia però, e visitavo le chiese dei luoghi in cui andavo. La prima volta in cui mi sono affacciata allo studio del Cristianesimo è stata quando mi sono iscritta all’università presso la facoltà di storia. Ho così scoperto una cultura, una storia, delle scritture molto interessanti. Ne fui talmente affascinata che modificai il mio piano di studi iniziale dedicandomi allo studio comparato delle religioni. Alla Hebrew University non esiste un apposito dipartimento di studi sul Cristianesimo: non potrebbe essere accettato. Per questo lo hanno chiamato “Religioni comparate”, anche se, in realtà, per le altre religioni esistono i relativi dipartimenti. Comunque sia, ho cominciato così ad approfondire la mia conoscenza del Cristianesimo, soprattutto dal punto di vista storico.
Un giorno, però, mi affaccio ad una finestra dell’università e realizzo che tutto quello che stavo imparando sui libri è accaduto laggiù, nella città vecchia di Gerusalemme, e non nel campus di Monte Scopus dove passavo le mie ore rintanata a studiare.


D - E cosa accadde?

R - Scesi nella città vecchia e completai i miei studi passandovi le mie giornate. L’ultimo anno i miei articoli si focalizzarono quindi sul Cristianesimo “moderno” e sulle attuali comunità cristiane presenti in Terra Santa. I miei professori facevano un po’ fatica a seguirmi perché non conoscevano queste realtà: erano preparati sul Cristianesimo dalle sue origini fino al V secolo; io parlavo di Cristianesimo del XIXesimo e XXesimo secolo. Nella città antica avevo la possibilità di entrare in contatto con le varie culture cristiane, con le diverse letterature, con le persone, con i problemi delle comunità, dei sacerdoti e dei laici. Studiai in modo particolare gli aspetti legati alla storia, all’antropologia, alla sociologia, tralasciando la teologia, troppo complicata per me. Pur essendo ebrea e vivendo in uno stato ebraico compresi l’importanza di conoscere il Cristianesimo per capire la cultura occidentale. Mi resi conto di quanto il Cristianesimo influenzi anche il mondo ebraico: la cultura ebraica ashkenazita occidentale, per esempio, è profondamente influenzata dal suo rapporto con il mondo cristiano, dal confronto e dai conflitti, dal fatto di vivere gli uni accanto agli altri. Realizzai, inoltre, quanto importante sia la presenza della minoranza cristiana in Terra Santa. È sì una minoranza, ma una minoranza che ha una sua forza, fatta di persone che hanno studiato, che desiderano la pace, che possono rappresentare un importante legame tra il mondo ebraico israeliano e quello occidentale. E non solo. Sono anche persone che possono mediare fra il mondo ebraico e quello musulmano perché hanno le loro radici sia nel mondo occidentale che in quello arabo. E’ una minoranza davvero molto importante per lo sviluppo di questo Stato.

D - A cosa ti portarono queste riflessioni?

R - A comprendere e cominciare la mia missione, quella di rendere consapevole il mondo ebraico israeliano dell’importanza di questa minoranza. Per via della situazione conflittuale che viviamo, infatti, non solo esistono minoranze, ma anche minoranze nelle minoranze che sono completamente ignorate. Bisogna invece sviluppare un’attenzione e una cura nei loro confronti. Dobbiamo aiutare queste realtà a rimanere in questa terra per contribuire alla sviluppo di questa società.

D - Quali sono le principali attività attraverso cui esprimi questa tua missione?

R - Accompagno gli ebrei, ad esempio, all’introduzione e alla conoscenza della cultura cristiana in modo che possano capire i libri che leggono, i film che vedono, l’arte nei musei: alle spalle di ogni scrittore, regista o artista, infatti, c’è la cultura cristiana. Noto che, quando spiego, le persone stesse cominciano a fare delle connessioni, a capire degli aspetti e rendersi conto di quanto li ignorassero prima. E’ fondamentale promuovere questo processo di comprensione soprattutto in un mondo che è sempre più multiculturale.
In parte sono anche impegnata a introdurre i cristiani locali - arabi quindi - alla cultura ebraica. I cristiani del posto hanno una conoscenza minima dell’ebraismo, nonostante gli ebrei siano i loro vicini di casa.
Guido, infine, gruppi che arrivano dall’estero per introdurli alla prospettiva degli ebrei israeliani sul mondo di oggi, su che cosa significhi fare dialogo in questa terra.
Il mio compito è quello di combattere l’ignoranza nelle sue varie forme. Ignorare significa procedere per stereotipi e avere pregiudizi. Sono dell’idea che più le persone potranno sviluppare la conoscenza dell’altro più le relazioni tra le comunità ne guadagneranno.

D - Il mondo ebraico israeliano come vede il Cristianesimo?

R - Per rispondere a questa domanda è importante capire la posizione che i cristiani prendono nel conflitto in atto e il fatto che, nel momento in cui non scelgono la nostra parte, siano visti come nemici. È inoltre necessario evidenziare le difficoltà che gli ebrei hanno rispetto a una serie di avvenimenti storici: le relazioni tra ebrei e cristiani sono state molto conflittuali in passato e nonostante sia facile enfatizzare i periodi in cui i rapporti sono stati particolarmente negativi, bisogna prendere atto che questa è stata la realtà: le persecuzioni, l’epoca delle crociate, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, la loro conversione forzata, la Shoah. Sono tutti aspetti fortemente presenti nelle nostre vite e nella nostra psicologia il cui ricordo permane nell’educazione delle nuove generazioni.
Sarebbe fondamentale comprendere che le cose oggi sono cambiate. La posizione della Chiesa è mutata, nello Stato di Israele siamo una maggioranza. Purtroppo, però, molti israeliani continuano a vivere in questa condizione mentale di vittime. Non vogliamo dimenticare, non vogliamo mettere alcune questioni da parte e “andare oltre”.
Esiste poi il problema teologico: per gli ebrei il Cristianesimo rappresenta un’idolatria per via della trinità e della rappresentazione artistica della divinità tramite le icone e le statue. L’idolatria per gli ebrei è qualcosa da cui tenersi bene alla larga e contro cui bisognerebbe combattere. Questo pone, evidentemente, un grosso problema nelle relazioni. Ci sono stati rabbini che hanno dato una lettura diversa ridimensionando l’accusa di idolatria, ma rimane comunque una visione negativa nei credenti e una difficoltà a intendere il Cristianesimo come una religione diversa dalla propria da rispettare.
Mettendo insieme il problema del conflitto, della storia e della teologia, si capisce quanto sia difficile promuovere un dialogo con i cristiani. Tuttavia voglio sottolineare che esiste un interesse per il Cristianesimo. Basta andare al Santo Sepolcro il sabato per capirlo: tanti ebrei sono lì per visitarlo. Io guido molti gruppi di persone disposte a pagare per conoscere un po’ di più il Cristianesimo. Detto questo, sento che mi devo impegnare per permettere una evoluzione da una semplice curiosità alla possibilità di promuovere uno sguardo di rispetto. E’ una sfida.

D - Ti sembra di raggiungere questo obiettivo?

R - Credo di sì. La religione non è una questione di logica, ma di sentimenti. Quando parlo del fatto di imparare a rispettare i sentimenti dell’altro vedo che qualcosa si accende. Magari non a tutti, dipende anche dal livello culturale delle persone. Questo è il cuore del mio lavoro: non tanto introdurre le persone alla storia della Chiesa e della religione, ma aiutarle a conoscere per rispettare il credo altrui.

D - Hai partecipato al Sinodo sul Medio Oriente che si è tenuto a Roma. Che tipo di esperienza hai avuto in quanto ebrea e in quanto donna.

R - È giusto soffermarsi su entrambi gli aspetti: ebrea e donna. Naturalmente i partecipanti al Sinodo erano tutti uomini. C’era solo qualche donna fra gli ospiti. Credo che anche gli esperti fossero tutti uomini. Personalmente sono stata invitata da padre Lombardi e ho collaborato con Radio Vaticana: volevano che ci fosse un sito in lingua ebraica in modo che gli israeliani potessero avere accesso agli aggiornamenti direttamente dalla fonte vaticana. Ho avuto la possibilità di ascoltare dibattiti molto interessanti sui problemi in Medio Oriente: di alcuni ero a conoscenza, di altri no. Questo mi ha aiutata a capire il livello di complessità della situazione e quante siano le sfumature.
Durante il Sinodo i problemi delle relazioni con il mondo musulmano sono stati al centro dei lavori; il conflitto israelo-palestinese è stato citato poche volte. Tuttavia, nel messaggio finale al popolo di Dio, un intero passaggio del documento è stato dedicato alla situazione nella nostra terra, al muro, all’occupazione, ai check-point, alle condizioni di ingiustizia. Poche righe sono state invece dedicate al conflitto in Libano, in Iraq e in Egitto. La situazione in quei luoghi è grave, ma non se ne può molto parlare per ragioni di sicurezza. Credo che gli israeliani non aspettassero altro: la stampa israeliana, infatti, era piena di articoli che mettevano in luce unicamente il passaggio critico nei confronti del nostro Stato. E’ un peccato perché la Chiesa sta cercando di costruire buone relazioni con il mondo ebraico, ma se la stampa israeliana, e credo anche altri media nel mondo, hanno messo in luce unicamente il paragrafo dedicato alla situazione in Terra Santa, ogni sforzo è stato compromesso. Tutte le discussioni sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano non sono state minimamente menzionate dalla stampa israeliana. Non si è detto che il Vaticano ha aperto un sito in lingua ebraica perché gli ebrei potessero avere accesso a quello di cui si stava discutendo. Tutto questo non può che infiammare la situazione di conflitto in cui viviamo e che invece diciamo di voler superare. Desidero fortemente vivere una vita migliore qui in questa terra, ma ho proprio avvertito che i media non aiutano a creare un’atmosfera migliore. Il mio è un lavoro fatto di momenti di entusiasmo e di frustrazione. È un lungo cammino.

... (continua)
giovedì, ottobre 07, 2010

La forza della parola

La nostra corrispondente a Gerusalemme Raffaela Corrias ci parla di "Breaking the silence"

Vivendo a Gerusalemme si è sommersi, in effetti sarebbe meglio dire sopraffatti, dalla storia. Le pietre di questa città parlano da oltre tremila anni. Ma tra le mura della “Old city” o lungo il viale pedonale Ben Yehuda una domanda rimane priva di risposta: com’è dall’altra parte? Dall’altra parte, ossia oltre il muro di protezione, nei Territori Occupati dall’esercito israeliano durante la guerra dei sei giorni, nel 1967. Dall’altra parte, in Cisgiordania, o come ormai si dice anche da noi sulla riva occidentale del fiume Giordano, nel West Bank.
Dall’altra parte significa, per esempio, Hebron. La città, infatti, gioca un importante ruolo dal punto di vista culturale, storico e religioso sia per i musulmani che per gli ebrei ed è l’unica realtà in cui famiglie palestinesi ed ebree condividono i muri adiacenti delle loro case.
... (continua)
martedì, settembre 28, 2010

Alla scuola di Abramo

Seconda parte dell'intervista della nostra corrispondente Raffaela Corrias a Emile Moatti, pioniere del dialogo interreligioso a Gerusalemme. Clicca qui per la prima parte

D - Emile, è arrivato a Gerusalemme con grandi speranze. Ha vissuto momenti di disillusione?
R - Inizialmente fui molto deluso dalla vita di tutti i giorni perché non riuscivo ad avere un riscontro rispetto a quell’evoluzione verso la riscoperta di Dio che desideravo e attendevo. I cristiani non amavano gli ebrei, i musulmani non amavano i cristiani e gli ebrei. La vita concreta era abbastanza agli antipodi rispetto ai miei ideali. Non potevo essere che deluso, ma nel fondo permaneva uno spazio per la speranza che si nutriva della tradizione. L’unica cosa veramente importante è avere pazienza. Siccome la prima volta che sono venuto qui è stato quarant’anni fa, questo mi permette di vedere l’evoluzione delle cose. Quarant’anni fa, infatti, non si poteva fermare una persona per strada e parlarle di Dio. Oggi si può fare. Questo, naturalmente, non significa poi essere approvati. Poter parlare di Dio a proprio modo e in tutta franchezza è un progresso immenso. E siccome molte persone hanno ricominciato a parlare di Dio, siccome c’è un grande progresso nel dialogo interreligioso legato al Concilio Vaticano II – non dimentichiamoci che il Vaticano II si è concluso nel 1965, cioè un anno dopo la mia seconda permanenza di quattro mesi in Israele – ci troviamo in un periodo di evoluzione delle mentalità. Ho aiutato molte associazioni interreligiose a costituirsi. In particolare ho favorito la costituzione della sezione francese in seno alla Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace nel 1986. Il Concilio Vaticano II aprì le porte allo sviluppo del dialogo interreligioso e alla creazione della Fraternità di Abramo in Francia.
 

D - In cosa consiste la Fraternità di Abramo?
R - In seguito al Concilio Vaticano II, Andre Chouraqui, lo scrittore che ha tradotto i testi sacri in una stessa lingua, il francese, entrò in contatto con il mondo cattolico e quello islamico di Parigi. Le persone coinvolte compresero che se non si fosse fatto uno sforzo nella prospettiva del dialogo interreligioso, non ci sarebbero state speranze per la costruzione della pace. Decisero quindi di fondare un’associazione, la Fraternità di Abramo.
Il Vaticano II si è concluso con la dichiarazione “Nostra aetate” che per la prima volta nella Chiesa Cattolica ha incoraggiato il dialogo interreligioso. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II hanno permesso di intraprendere una via nella giusta direzione. Poi c’è stato l’esempio meraviglioso di Giovanni Paolo II che ha permesso alla Chiesa di fare il “Mea culpa”, faccia a faccia con Dio.
 

D - Cosa pensa dei giovani di oggi relativamente alla religione e al contributo che possono dare al dialogo interreligioso?
R - Oggi se si fa un cammino, lo si fa seriamente e con cognizione di causa. Non è più un “coinvolgimento tribale”. In passato si agiva come delle tribù, nel senso che si faceva un percorso più in opposizione a un altro gruppo che per spinta personale. Ci sono stati dei grandi politologi che hanno detto che la politica è nata grazie alla definizione dei propri nemici. Sapendo chi è il proprio nemico è possibile sviluppare la propria cultura. Una visione aberrante, ma che significa che le culture sono state fondate per lungo tempo sull’opposizione all’altro. La vera religione è un dialogo che ti mette in relazione quotidiana con Dio e quindi con l’amore, la giustizia, la ragione. Oggi i giovani sono molto esigenti: non vogliono più reagire come dei “pecoroni” e in modo istintivo, ma con tutta la loro anima. Per questo quando si mettono in ricerca si tratta di una ricerca seria di Dio e se lo trovano diventano dei veri e propri pilastri. La questione è quindi quella di saper parlare di Dio ai giovani. 


D - Quale consiglio darebbe a un giovane in ricerca?
R - Gli direi che è fondamentale confrontarsi con la propria religione, anche se non è perfetta. Nessuna lo è. Gli direi di rendersi utile nel contesto di ambiti legati alla propria tradizione religiosa mantenendo uno sguardo critico. La critica viene da un’intuizione del cuore; se il cuore suggerisce qualcosa è importante ascoltarlo. Mai ascoltare la religione ad occhi chiusi.
 

D - Come può un giovane cominciare a impegnarsi nel dialogo interreligioso se matura questa intuizione e questo desiderio?
R - Là dove si trova ci sono sicuramente possibilità di mettersi in dialogo. Il dialogo comincia sorridendo ogni mattina alle persone che incontriamo. Sarà poi la vita che si prenderà l’impegno di indicare la direzione da intraprendere. Prendiamo sempre come riferimento l’ospitalità di Abramo: accoglie tre persone che di fatto sono tre angeli. Sta conversando con Dio quando vede sopraggiungere tre uomini stanchi, desiderosi di bere qualcosa di fresco, e di passaggio. Abramo si rivolge a Dio dicendogli che avranno tutto il tempo di riprendere la loro conversazione; quegli uomini, invece, hanno bisogno di essere aiutati immediatamente. Dio lo incoraggia ad andare dai tre uomini: questo è Dio. Dio è l’aiuto a qualsiasi persona si incontri. Quando si è capaci di vivere in questo modo, una serie di contatti si sviluppano poi da sé! Così si trasforma se stessi e coloro che si accolgono. Confrontarsi sui propri punti di vista è una crescita per noi e per chi incontriamo e in questo modo si scopre il cammino di Dio. Se in tanti saremo capaci di agire in questo modo il mondo potrà prendere coscienza dell’esistenza di Dio. Questo è il mio impegno, quello su cui sto lavorando.
 

D - Oggi a Gerusalemme in che modo concreto Emile Moatti vuole dare voce a questo suo impegno?
R - Innanzitutto voglio essere attento ai segni. Dio ci fa dei piccoli “occhiolini”. Gli incontri che facciamo ci mettono su un cammino. Le voglio parlare del mio progetto: vorrei che un domani ci fosse una preghiera per la pace a Gerusalemme, così come quella di Assisi del 1986 che riunì i rappresentanti di quasi tutte le religioni del mondo.
Fui invitato come semplice credente ad Assisi da Papa Giovanni Paolo II perché mi interessavo molto al dialogo interreligioso. Chiesi consiglio ai due Grandi Rabbini di Francia e di Parigi che mi incoraggiarono a partecipare. Fu uno dei momenti più impressionanti della mia vita. Pensi che non c’era nemmeno la presenza di un giornalista francese. Oggi, invece, ci sarebbero tutti i giornalisti del mondo! Era lunedì 27 ottobre 1986. Mi ricordo bene la data. Quindi si parla di vent’anni dopo il Vaticano II. Vede quanto cammino si è fatto?
Vorrei ripetere questa esperienza a Gerusalemme perché la sua vocazione è quella di portare la pace nel mondo. Bisogna quindi aiutare Gerusalemme a compiere la sua missione. Come fare? Sto cominciando a coinvolgere le persone che stanno alla base per poi risalire ai leader religiosi.
È necessario che si chieda perdono e che ci si perdoni gli uni gli altri, faccia a faccia, così come accadde ad Assisi. Nelle feste ebraiche di Rosh Hashana e Yom Kippur si digiuna per accedere al perdono, è una penitenza; si fa la carità così come fece Abramo; si prega, cioè si parla con Dio. Dio ci parla tramite la sua parola, il testo sacro, noi con lui tramite la preghiera. Quindi grazie alla preghiera che mi mette in dialogo con Dio, alla penitenza che mi permette di chiedere perdono e alla carità che mette in luce il desiderio di intraprendere un cammino nella giusta direzione, ottengo il perdono di Dio. Questo è il primo passo e questo possiamo fare tutti insieme a Gerusalemme, gli uni accanto agli altri. Kippur ha un fine, Succot, un’altra festa ebraica, e Succot è allenarsi all’ospitalità abramitica gli uni con gli altri per arrivare alla gioia condivisa. Non esiste gioia vera se non è condivisa. Quando facciamo il kiddush o voi cristiani l’eucarestia, si condividono due cose: il pane che dona la vita dal punto di vista fisico e il vino che rappresenta la spiritualità, cioè la conoscenza di Dio. Se condivido i miei beni materiali e la mia conoscenza di Dio ho accesso alla gioia eterna! Questa è la mia speranza e tutto questo mi appassiona profondamente! Spero di avere la salute per impegnarmi a fondo. Sono grato ai passi di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II e ho anche fiducia in Benedetto XVI. È vero che non viviamo ancora in un mondo dove ci si capisce gli uni con gli altri come si dovrebbe, ma il dialogo è il cammino da percorrere. Ho chiesto alle suore di molti conventi qui a Gerusalemme di intercedere perché la preghiera per la pace possa realizzarsi in questa città … e se ci sono delle suore che pregano Dio per questo, come sarà possibile fallire? Ho delle buone carte!

... (continua)
lunedì, settembre 27, 2010

Alla scuola di Abramo

La nostra corrispondente a Gerusalemme Raffaela Corrias ha incontrato per La Perfetta Letizia Emile Moatti, delegato della Fraternità di Abramo, pioniere del dialogo interreligioso trasferitosi a Gerusalemme con il desiderio di aiutare la città a compiere la sua missione universale: la riconciliazione tra le Nazioni. Di seguito la prima parte dell’intervista (Clicca qui per la seconda parte).

D - Emile, ci racconti le tappe importanti della sua vita.
R - Sono nato in una famiglia ebrea di una piccola città di 15.000 abitanti in Algeria. Era un luogo di grande spiritualità, considerato un’oasi per la sua acqua e per il suo verde. La peculiarità di questa cittadina era il fatto di essere abitata da quelli che si definiscono credenti abramitici. La cultura abramitica, intesa come conoscenza della figura di Abramo, faceva da collante tra ebrei, cristiani e musulmani. Ho avuto un’infanzia meravigliosa in cui ho sperimentato i valori dell’amicizia e della convivenza pacifica con le altre comunità. Gli anni in Algeria hanno rappresentato un modello di quello che avrei poi cercato nella vita: persone capaci di entrare in comunicazione le une con le altre con spontaneità e con il cuore. Nel 1949 mi sono trasferito in Francia dove sono stato ammesso a l’École Polytechnique di Parigi. Ai tempi non ero un ebreo praticante, ma avevo sempre mantenuto una sorta di cordone ombelicale con la comunità. Durante le feste, per esempio, condividevo il mio tempo con altri ebrei.

D - E cosa l’ha spinta a rinsaldare ulteriormente quel cordone ombelicale tanto da partire per Israele?
R - Finiti gli studi ho intrapreso un cammino di ritorno alle mie radici. Lo stesso percorso dello scrittore Andre Chouraqui che ispirò me e molti altri. Chouraqui, infatti, visse un allontanamento dalla religione ebraica. Fu la nostalgia per l’ambiente conosciuto in gioventù a riavvicinarlo alla propria tradizione. E’ stato l’unico scrittore nel mondo ad aver tradotto i libri sacri dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam nella stessa lingua, il francese. Ed è stato proprio il suo essere scrittore che gli ha permesso di tornare all’Ebraismo.
Sono quindi partito per lavorare quindici mesi in URSS. Si viveva in un clima di spionaggio. La propaganda ripeteva dalla mattina alla sera che l’Occidente voleva la guerra con il mondo comunista. Ho lavorato in un ambiente decisamente poco accogliente. Tutto questo mi ha molto influenzato e interrogato.
Rientrando in Francia in nave ho incontrato dei cristiani che erano stati in Israele. Mi ricordo che ero stato colpito dalla comparazione che avevano fatto tra il kibbutz israeliano e il kolkoz sovietico. Così l’estate seguente, con mia moglie, abbiamo passato un mese in Israele girandolo in lungo e in largo. In quell’occasione ho sperimentato il profondo contrasto tra un paese come l’Unione Sovietica, dove non si poteva quasi parlare, e un paese come Israele, dove tutti avevano voglia di raccontare la propria vita e suggerire come ricostruire il mondo. Parlavamo con le persone da mattina a sera inoltrata. Questo viaggio mi ha ricordato la promessa che mi ero fatto: riprendere in mano le mie radici ebraiche.
Nel 1964 partii nuovamente per Gerusalemme dove mi fermai per qualche mese. Volevo imparare l’ebraico, approfondire ulteriormente la mia tradizione religiosa, riflettere e capire se l’Israele che avevo conosciuto attraverso i testi sacri potesse essere l’Israele che stava rinascendo. In realtà era un paese socialista non molto interessato alla religione. Incontrai, comunque, dei veri credenti che fecero nascere in me una reale speranza. La speranza della riconciliazione di tutte le Nazioni. L’anelito di ogni vera religione.
Con questa speranza, tornato in Francia, continuai il mio percorso di approfondimento e mi impegnai nella mia sinagoga. Il mio cammino era quindi segnato: mi coinvolsi prudentemente, perché non era ben visto, nel dialogo interreligioso. Credevo che fosse davvero quello che bisognava fare.

D - Per quale motivo ha poi deciso di venire a vivere a Gerusalemme?
R - Pensai che se Dio desiderava che tornassi all’Ebraismo fosse necessario che tornassi anche in Israele. Avevo il desiderio di partecipare alla sua rinascita in loco. Il Paese stava vivendo una vera e propria resurrezione. Era quindi logico che facessi questa esperienza di venire a vivere qui. Feci, come si dice, “aliyah”. Sarei dovuto venire nel 1967, ma per via della Guerra dei Sei Giorni rimandai. Intanto in Francia cresceva il numero delle persone che ritornavano all’Ebraismo e cresceva il numero dei candidati che volevano tornare in Israele per viverci. Tornai, quindi, con un gruppo di universitari nel 1968. Fummo i primi di un’immigrazione che per la prima volta non era dettata dalla fuga per via delle persecuzioni, ma che avveniva per scelta. La scelta di persone che erano ritornate alla religione, alla tradizione. Venni in Israele non certo perché non amavo la Francia, ma perché rappresenta una speranza per l’umanità. Se faremo rivivere la spiritualità a Gerusalemme, la pace si espanderà nel mondo intero.

D - Perché crede nel ruolo di Gerusalemme per il mondo intero?
R - Prima di tutto perché è scritto nei testi sacri di tutte le nostre tradizioni, ebraica, cristiana e musulmana; poi perché lo sento fortemente: quando ho dei contatti con degli ebrei praticanti, dei cristiani praticanti o dei musulmani praticanti, con veri uomini di fede intendo, parliamo la stessa lingua e speriamo nella stessa nuova rivelazione di una civiltà di fraternità. La civiltà abramitica è la civiltà della fraternità universale. Cosa ci ha insegnato Abramo? Che ogni essere vivente, ogni persona, uomo o donna, è considerato come un fratello o una sorella e va accolto con ospitalità. Tutto è scritto lì dentro. Che sia Ebraismo, Cristianesimo o Islam, non ha alcuna importanza. Per me la cultura ebraica porta in sé un potenziale di sviluppo di un mondo di fraternità dove non ci sarà più la guerra. È una speranza messianica che qui a Gerusalemme è inscritta nella vita quotidiana, che qui si può intuire. È quindi normale che mi impegni con così tanto entusiasmo in questa avventura.

D - Guardando Gerusalemme non è sempre facile sperare nella fraternità e nella pace ..
R - La politica è senz’altro divisa. Bisogna essere consapevoli che la politica senza la religione porta in sé la divisione. Tuttavia ogni persona che ha una vera fede non può che impegnarsi nel dialogo e a favore della fraternità. Queste persone di fede esistono, le frequento! Avverto questa speranza per la pace universale tra persone di fede ebraica, cristiana e musulmana.
Oggi la religione è poco conosciuta. Le religioni hanno deviato dai loro obiettivi e spesso sono divenute causa di guerra. Quando ci si pensa è terribile. Se le religioni diventano causa di guerre si trasformano nel contrario di quello che dovrebbero essere. Siamo in un periodo di transizione. Ciascun popolo ha cercato la sua via, ma senza un reale contatto con gli altri. I musulmani hanno una “sura” che dice che Dio avrebbe potuto creare un’unica comunità, ma che ha voluto creare molti popoli in modo che gli uomini possano discutere tra di loro sulla verità per riscoprire i valori della religione. E credo che tutto questo sia molto vero: se guardo oggi la realtà mi ritrovo davanti a un mondo che sta uscendo da una cultura dove ogni nazione e ogni religione sono ripiegate su loro stesse per entrare in una cultura dove ci si comincia ad aprire agli altri. E’ proprio un inizio, ma questo è il cammino, siamo nella direzione giusta.
È difficile giudicare l’attuale conflitto in questa terra perché è necessario distinguere tra i vari livelli della situazione. È certamente importante lavorare su una speranza comune partendo dalle tradizioni abramitiche. Se la pace arriverà qui, se la vera religione di amore e giustizia qui si rivelerà, possiamo essere sicuri che il giorno dopo tutto il mondo ne sarà al corrente! Sarà un risveglio. Andiamo verso una pentecoste, una nuova pentecoste: in tutte le nazioni le persone di buona volontà scopriranno nel loro cuore valori veri che vengono da Dio e si comprenderanno anche se non parlano la stessa lingua.

D - Come è possibile che questo cambiamento interiore, questa riscoperta di Dio, possa mettersi in relazione con la politica?
R - È necessario che la politica si agganci alla religione, ma non è certamente facile perché rappresenta degli interessi particolari o di gruppo. Gli interessi degli uni vanno a discapito degli interessi degli altri. La politica per natura è conflittuale mentre la religione, per natura, cerca l’unità. Dio è uno, l’unità è una.
Tutto si muove sul livello interiore di ogni individuo. Bisogna comunque fare politica perché la politica è l’organizzazione della vita sociale, ma bisognerebbe farla in riferimento, quando possibile, alla religione. Questo possono farlo solo i credenti. Bisogna convertire il mondo alla religione dell’unico Dio per l’umanità intera. Ogni religione sa convertire le persone, ma normalmente non nella buona direzione: voglio convertire l’altro a quello che sono io. Bisogna invece convertire l’altro a ritrovare Dio dentro di sé. È l’esempio migliore è Abramo. Sono un grande conoscitore di Abramo. È una figura che ho studiato e su cui ho riflettuto per quarant’anni. Secondo me non c’è niente da aggiungere: quando si comprende l’ideale di Abramo significa che si è compreso il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam. Anziché deviare nell’opposizione all’altro, bisogna camminare verso Dio e ritrovare l’unità dell’umanità in Dio, grazie a Dio.

... (continua)
martedì, agosto 17, 2010

Quando il frutto si vede dalle radici

La nostra collaboratrice a Gerusalemme Raffaela Corrias ci parla di un nuovo esperimento per l'integrazione in Medioriente: gruppi di studenti ebrei e palestinesi che si incontrano per conoscersi, discutere e superare ogni barriera...

È agosto, ma le porte della Hebrew University di Gerusalemme rimangono aperte per accogliere ragazzi stranieri iscritti ai corsi di ebraico e quelli del posto impegnati nello studio estivo. Non solo loro, però... Nell’aula 3021 della Facoltà di Scienze Sociali si è riunito un gruppo composto da studenti della Hebrew University e dell’Università di Betlemme. È un evento di rilievo, indice del fatto che, nonostante il muro che da anni divide il mondo israeliano da quello palestinese, esistono giovani che hanno il desiderio di incontrarsi e mettersi in gioco, superando ogni barriera fisica e mentale.

L’incontro, promosso da Interfaith Encounter Association, una realtà impegnata nel dialogo interculturale e interreligioso in Terra Santa, si è svolto nel cuore di una calda giornata mediorientale: tema, le “radici”. Dopo una breve introduzione preparata da due studenti e relativa ai punti salienti della storia dei due popoli, ebreo e palestinese, ogni partecipante è intervenuto raccontandosi attraverso le origini e il vissuto della propria famiglia. L’argomento si è rivelato capace di toccare le corde più intime dell’identità di ognuno: una ragazza ebrea, durante uno dei momenti emotivamente più culminanti, è prorotta in un pianto che lei stessa ha definito liberatorio; gli altri membri del gruppo hanno saputo accogliere quelle lacrime in un rispettoso, ma partecipato, silenzio. Il tempo di condivisione ha rappresentato così una preziosa opportunità per affacciarsi gli uni alla storia degli altri e per capire che in questo conflitto, anche se in modi molto diversi, tutti sono vittime.

Molti dei partecipanti seduti in cerchio sono iscritti a percorsi di studio inerenti il Medio Oriente e vogliono fare della loro futura professione una possibilità per contribuire alla costruzione di un processo di pace nella regione. Sono giovani preparati che sentono di avere una missione da portare avanti. Giovani che hanno le capacità per diventare forza trainante per altri. Noy, 28 anni, dopo aver viaggiato per conoscere il mondo ed impegnarsi in attività di volontariato, ha conseguito da poco la laurea di primo livello in Storia presso la Hebrew University ed è il coordinatore degli studenti di parte israeliana. Alla domanda sul perché abbia intrapreso questo percorso risponde: “Sono coinvolto in attività di dialogo interculturale dal 2007, da quando ho cominciato l’università. Ero stato in India come volontario per due periodi di sei mesi. Lì ho avuto una rivelazione: ho avvertito con forza che gli israeliani hanno una ferita profonda che segna la loro anima. Ho sentito, e sento tuttora, vividamente, che è il nostro stato di ansia correlato alla situazione con i palestinesi a provocare questa ferita. Il mio impegno nel dialogo, tramite la partecipazione attiva ai gruppi, significa dare una piccola mano al processo di guarigione di cui la mia gente ha bisogno”.

Ricorda poi un evento che ha segnato il suo percorso di consapevolezza: “La prima volta nella mia vita in cui ho incontrato un palestinese - si trattava di una giovane ragazza - fu in Scozia. Un mio amico ed io viaggiamo per cinque ore con lei e il suo ragazzo irlandese da un paesino che si trovava nel bel mezzo del nulla fino a Edimburgo. Sentivo che avevamo davvero tanto in comune in quell’ambiente. Eravamo così simili e il resto delle persone era, invece, così diverso da noi. Era veramente incredibile quanti aspetti ci accomunassero. E per scoprirlo abbiamo dovuto incontrarci lontano da casa. Così, non appena rientrato a Gerusalemme, dove semplicemente attraversando la strada si passa da un contesto culturale a un altro, ho sentito che doveva esserci un modo per mettersi in relazione con persone che sono così vicine a me e nel contempo così lontane”.

Noy ritiene che incontrare ragazzi che vivono “al di là del muro” gli permetta di destrutturare i pregiudizi che si erano annidati in lui per via dell’educazione ricevuta. Stereotipi che erano diventati causa di vere e proprie fobie. E per aiutarmi a capire che cosa intenda, mi riporta un fatto da lui vissuto qualche mese prima nel quartiere arabo della città vecchia di Gerusalemme: “Sei mesi fa abbiamo avuto un incontro interreligioso all’Ostello Austriaco. Era un ritiro di un fine settimana. Il primo giorno abbiamo parlato per sei ore di valori. Il confronto era stato davvero intimo e profondo. A conclusione di questa prima giornata, mentre mi avviavo a casa per andare a dormire, mi sentivo pieno di speranza e con un gran senso di sollievo. La mia moto era parcheggiata in una via vicina e buia della città vecchia di Gerusalemme. Mentre mi ci stavo avvicinando, tre palestinesi sono usciti da un ristorante completamente ubriachi e hanno cominciato a farmi domande sulla motocicletta. In qualsiasi altra circostanza mi sarei sentito fortemente sotto pressione e avrei pensato a come difendermi. Grazie allo stato di sollievo e speranza con cui ero uscito dall’incontro, invece, non li ho percepiti come nemici, ma semplicemente come persone interessate alla mia moto. Abbiamo parlato di motori per venti minuti, mescolando ebraico e inglese, e ci siamo salutati abbracciandoci! Me ne sono andato con un incredibile sentimento nel cuore. Ho pensato che lo stato emotivo con cui avevo approcciato la cosa avesse permesso di trasformare una situazione potenzialmente critica in un momento veramente piacevole. È per questo che per me è così importante entrare in dialogo”.

Nour, originario di un paesino vicino a Hebron, ha 22 anni ed è il coordinatore degli studenti dell’Università di Betlemme dove, a maggio, ha conseguito la laurea di primo livello in lingua e letteratura inglese. Parlando della situazione del paese in cui vive e del suo coinvolgimento personale nelle attività di dialogo, dice: “Siamo abituati, fin da giovani, a sentire le interviste dei leader israeliani e palestinesi. Noi volevamo avere un approccio che coinvolgesse la cittadinanza, aiutando le parti a parlarsi e a rompere il ghiaccio. Entrare in relazione con gli ebrei significa confrontarsi tra persone, arabi ed ebrei, che vivono qui da più di 2000 anni. Abbiamo deciso di percorrere la via del dialogo per poter vivere insieme in pace. Dialogando impari che il confronto avviene, innanzitutto, tra individui che condividono la stessa terra e la stessa cultura. Ho imparato che non tutti sono cattive persone e che non tutto quello che senti dire è vero. Certo, non trovi solo chi ti appoggia e incoraggia in questo cammino. Alcuni hanno una mentalità diversa, un’altra opinione rispetto a quello che stiamo facendo, ma noi proviamo comunque a fare qualcosa. Desideriamo avere delle buone relazioni con le persone, perché viviamo insieme non come palestinesi e israeliani, non come musulmani, cristiani ed ebrei, ma come esseri umani”.

Con i due coordinatori riflettiamo, poi, sul concetto di speranza. Nour ritiene che sia un sentimento insito nell’uomo che deve essere in grado di trasformarsi in azione concreta: “Di fatto abbiamo sempre una speranza. Ma non possiamo solo dire che vogliamo farla finita con tutti questi massacri che entrambe le parti subiscono. La speranza ci deve far lavorare fattivamente per una soluzione”. Noy mette in relazione la propria speranza per un processo di pace in questo paese con la fiducia e la conoscenza dell’altro. Riprende l’esempio dell’incontro notturno fatto nella città vecchia: “Vedere dei palestinesi ubriachi che si avvicinano a passo spedito in una strada buia avrebbe significato, nove su dieci, scappare o addirittura attaccarli per il solo pensiero che, se non lo avessi fatto io per primo, lo avrebbero fatto loro”. Diversamente: “Se qualsiasi ebreo mi corresse incontro, mi chiederei semplicemente perché lo stia facendo… se fosse poi una ragazza mi sentirei addirittura lusingato! Se mio padre lo facesse, gli correrei incontro anche io per abbracciarlo! Esistono diversi tipi di relazione, diversi livelli di fiducia con le persone. Le mie reazioni sono legate a quel particolare livello di fiducia che ho riguardo ad una particolare relazione. Se questo è vero per i singoli individui, lo è anche per i Paesi. I Paesi diventano quello che sono le persone che lo costituiscono”.

Prosegue, quindi, passando dall’esperienza personale agli avvenimenti della storia recente: “Se qualche palestinese lancia un razzo su Ashkelon, noi bruciamo Gaza. Non sono preparato sul tema della sicurezza - ammette - ma mi sembra che sia una reazione dettata dal panico. In un posto dove si è in grado di costruire un livello di fiducia più alto si può diventare tolleranti rispetto agli errori degli altri. Credo nella self-security. Abbiamo bisogno di sentirci sicuri per avere sicurezza. Se siamo pieni di ansie nessun muro ci potrà difendere. È una questione di come ci sentiamo. La speranza è l’unica arma che abbiamo contro il terrore, la frustrazione e l’oppressione. Perché altrimenti diventa unicamente una questione di auto-protezione. (I palestinesi) hanno cominciato a lanciare sassi e noi abbiamo risposto con le armi. Poi c’è stata la loro reazione con gli attacchi terroristici e poi un’ulteriore reazione da parte nostra”.

Le persone. Non solo palestinesi ed ebrei, ma Nour e Noy. Chiedo, dunque, che cosa significhi per loro essere palestinese ed essere ebreo. Nour mi guarda dritto negli occhi: “Prima di tutto sono orgoglioso di essere Palestinese. La parola Palestina significa “casa” e quindi non puoi sentirti a casa da nessun’altra parte se non a casa tua. Nonostante la situazione con gli ebrei sia difficile, nonostante il fatto che le persone soffrano e manchino loro tante cose, comunque essere Palestinese è bello. Hai la possibilità di conoscere tante persone, di essere coinvolto in tante occasioni di dialogo; diventi capace di giudicare molte situazioni in tutto il Medio Oriente. E credo che essere Palestinese, presentarti come Palestinese che desidera la pace, che lavora perché l’occupazione abbia termine, che vive in pace con tutte le diverse parti in Palestina, sia molto significativo”.

Noy si raccoglie in un lungo silenzio e poi risponde: “Beh… è una bella domanda! Ti devo dire che è proprio una bella domanda… non ho una risposta ben definita. Ogni giorno mi alzo e ci penso. Penso a che cosa sia l’ebraismo per me. Mi sento Ebreo, ma esprimere cosa significhi è più difficile. C’è un detto di uno dei nostri migliori rabbini che dice che se si dovesse sintetizzare l’intera Torah, l’intera Bibbia ebraica, in una frase, sarebbe “Ama il tuo vicino” e quindi credo che questo significhi essere Ebreo… almeno per oggi”.

Con loro anche gli altri partecipanti del gruppo si interrogano sulla propria identità e quella del proprio vicino. Dopo due ore e mezza di incontro e un ice coffee al bar, gli studenti si salutano. Sembra di intravedere sui loro volti l’espressione di quel sentimento di sollievo di cui poco prima Noy mi ha raccontato. Diventa importante ricordarsene quando, in questi giorni, si leggono i quotidiani locali e si fatica a immaginare la possibilità di una situazione migliore.

L’iniziativa non vuole essere unica nel suo genere: i giovani delle due università si riuniranno una volta al mese e si confronteranno su una serie di temi che permetteranno loro di conoscersi e di “mettersi nei panni dell’altro” con l’obiettivo di essere parte attiva, nel proprio piccolo, del cambiamento di prospettive di cui ha bisogno questa terra. Il prossimo appuntamento si terrà a Betlemme. È Ramadan e gli studenti palestinesi musulmani introdurranno i propri ospiti all’iftar, la cena serale che rompe il digiuno diurno del mese sacro per l’Islam.
... (continua)
lunedì, luglio 26, 2010

Sulle strade di Terra Santa

Agosto è alle porte: tempo di viaggi e trasferte. La meta per alcuni sarà la Terra del Santo. Abbiamo incontrato a Gerusalemme, per La Perfetta Letizia, don Martino Signoretto, sacerdote della diocesi di Verona, biblista e guida di pellegrinaggi in Terra Santa.

dalla nostra corrispondente
Raffaela Corrias

Don Martino propone un percorso che porti i pellegrini non solo a conoscere i luoghi santi, ma anche a “toccare la Terra con i cinque sensi” e a entrare in contatto con le “pietre vive”, le persone e le realtà che abitano la Terra in cui “il Verbo si fece carne”.

Don Martino, qual è lo stile dei pellegrinaggi che organizza in Terrasanta?

Lo stile lo detta la terra. Nasce molto tempo fa attraverso un'esperienza che qua ho conosciuto tramite i gesuiti, in particolare Francesco Rossi de Gasperis che a sua volta lo ha imparato da Jacques Fontaine, che a sua volta lo ha imparato da un ebreo. Sono pellegrinaggi "sulla terra", cominciando quindi dal deserto, dalla terra, dalle pietre... da qualcosa che cosituisce il primo santuario, il primo luogo su cui, dice il Deuteronomio, "Dio pose i suoi occhi"... (ascolta l'intervista)

... (continua)
lunedì, luglio 05, 2010

“Cominciando da Gerusalemme” (Lc 24, 47)

In esclusiva per La Perfetta Letizia, da Gerusalemme, Raffaela Corrias

La Terra Santa, i luoghi sacri delle tre religioni monoteiste, il muro del pianto, il santo sepolcro, la spianata delle moschee. Spazi che si toccano, ma che a fatica si parlano. Spazi che evocano santità e al contempo richiamano il conflitto che attraversa e prostra questo lembo di mondo. Una terra che racconta di storie di rassegnazione da entrambe le parti del muro. Storie di raid aerei e di attacchi terroristici, di check-point e di umiliazioni. Storie di giovani palestinesi senza futuro e di giovani ebrei in fuga dal loro presente in una regione in cui il consumo di droghe desta crescente preoccupazione.
Nelle trame di queste spirali si intrecciano, però, anche realtà impegnate nella costruzione di relazioni tra le parti che il conflitto arabo-israeliano contrappone da decenni. Esse testimoniano che l’uomo, anche se coinvolto e stravolto dalla violenza, dalla guerra, dalle incomprensioni, è capace di sperare e di esprimere la sua speranza in azioni. IEA - Interfaith Encounter Association - e Hand in Hand, due associazioni no profit con sede a Gerusalemme, ne sono, con le loro proposte, esempi significativi: attraverso le vie delle relazioni interreligiose e dell’ambito educativo affermano che è possibile vivere in un modo nuovo in questa terra.

IEA è impegnata nella promozione ed edificazione di un processo di pace in Terra Santa e in Medio Oriente che vede come motore il dialogo interreligioso e come protagonista la gente comune. Il dialogo che propone non si caratterizza per l’erudizione teologica, ma sgorga dal vissuto dei partecipanti.
Le prime attività interreligiose in Israele risalgono agli anni ’50 del secolo scorso. Un piccolo gruppo di persone lungimiranti, tra cui personalità come quella di Martin Buber, intrapresero questo cammino ritenendolo indispensabile per la costruzione di una società fondata sui valori della coesistenza e del riconoscimento reciproco.
IEA ha raccolto questa sfida attivando, a partire da dicembre 2001, 33 gruppi di dialogo sul territorio israeliano per un totale di 850 incontri. Attualmente 20 sono i gruppi che si riuniscono in modo continuativo dal nord della Galilea fino a Eilat. In una terra dove si viene innanzitutto identificati con il proprio credo religioso e dove i rapporti si strutturano di conseguenza, ebrei, cristiani, musulmani, drusi e bahai si incontrano mensilmente con l’obiettivo di valorizzare la diversità come ricchezza da comprendere e rispettare.
Accomodarsi in un salotto o in un caffè per parlare del senso della misericordia nelle diverse religioni non solo permette di approfondire la conoscenza della propria tradizione e di quella altrui, ma crea lo spazio per mettersi in relazione. La relazione è capace, con il tempo, di trascendere gli stereotipi e i pregiudizi, diventando un terreno fecondo per il cambio di attitudini e per l’apertura ad un atteggiamento di rispettiva fiducia. Ci si ritrova, uno di fronte all’altro, nella propria umanità.
Ritiri di due giorni che favoriscono momenti di vita comune e viaggi alla scoperta di luoghi significativi per le proprie fedi completano un cammino fatto di pazienza e dedizione. La prospettiva di IEA coniuga, così, il piano della riflessione introspettiva e quello della quotidianità che, disgiunti, rischierebbero una certa sterilità.
E i risultati arrivano. Durante la pausa caffè dell’ultimo ritiro tenutosi nella città vecchia di Gerusalemme, una signora ebrea si è resa conto, con estrema sorpresa, del fatto che una sua coetanea dei Territori non avesse visto il mare neppure una volta. La donna araba raccontava di non aver mai ottenuto il permesso dall’autorità israeliana che le desse la possibilità di raggiungere la spiaggia a soli quaranta minuti di macchina da casa sua. Piccole consapevolezze foriere di grandi domande.

Hand in Hand nasce nel 1997 come risposta al modello di società israeliana fondato sulla separazione tra la popolazione ebrea e quella araba. L’intuizione fu di un insegnate arabo e di un educatore ebreo che videro nel sistema scolastico la possibilità di suggerire degli aspetti di novità. In una realtà dove le due popolazioni studiano in istituti diversi attenendosi a due distinti curricula scolastici, l’incontro fra questi due uomini ha dato vita a quattro scuole (Gerusalemme, Misgav, Kfar Kara e Beersheva) in cui ebrei e arabi frequentano le stesse classi imparando la lingua e la cultura dell’altro popolo. Ogni scuola ha due direttori, un ebreo e un arabo; allo stesso modo, per ogni classe, sono previsti due insegnanti: è il modo di Hand in Hand di educare 900 allievi, appartenenti a 20 diverse comunità, a punti di vista diversi.
Durante le ore di storia gli studenti affrontano gli avvenimenti approcciandoli secondo le due narrative - ciò che per l’ebreo è la guerra d’indipendenza, per l’arabo è la naqba, la catastrofe - e cercano, se non sempre di comprendere, almeno di conoscere. Esercitandosi a cambiare la propria prospettiva i ragazzi interiorizzano un prezioso strumento di lettura della realtà e sviluppano il loro senso critico, due aspetti importanti dei possibili leader di domani.
Anche durante i momenti di maggiore tensione, di violenza, di attacchi terroristici, gli studenti sono messi nelle condizioni di confrontarsi sugli eventi. Si tratta di una sfida faticosa, ma capace di dare i suoi frutti e di coinvolgere, oltre agli studenti e allo staff, anche le famiglie e le comunità.
Così come per Interfaith Encounter, anche per Hand in Hand la volontà è quella di contribuire in modo rilevante alla generazione di rapporti tra mondi che rischiano di essere ogni giorno più distanti. La mancanza di comunicazione causa l’ignoranza. L’ignoranza perpetua chiusura e diffidenza che, a loro volta, vanno ad alimentare le dinamiche conflittuali in atto.
IEA e Hand in Hand sono segni per i nostri tempi e contributi per la formazione delle coscienze. Parlano di una Terra Santa possibile, una Terra Santa in cui ognuno di noi è chiamato a credere. Una questione che non dovrebbe essere solo di interesse per chi qui nasce, vive e cresce. La storia passata ed attuale di questi luoghi, quello che ogni giorno accade all’interno di questi confini, ha una ripercussione sull’intera regione mediorientale e sul mondo tutto. Una pace giusta nella Santa Terra è un patrimonio per ciascuno di noi: non dimentichiamocene.
... (continua)


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