mercoledì, gennaio 30, 2008
Alla fine di dicembre 2007, dopo le elezioni, in Kenya è stato dichiarato lo stato di emergenza. L’escalation di violenze tra i diversi gruppi etnici ha causato la morte di almeno 200 persone nella sola città di Eldoret. In questa intervista, Keith Castelino, direttore di SOS Villaggi dei Bambini Kenya, parla della situazione del paese e delle urgenti misure di emergenza che l’organizzazione sta attuando.

da SOS Italia

Signor Castelino, 45 bambini rifugiati sono appena stati accolti al Villaggio SOS di Nairobi. Come stanno?

Sono spaventatissimi e traumatizzati. Hanno perso le loro case e hanno sperimentato sulla propria pelle i disordini. I loro genitori sono dispersi o sono stati uccisi; in molti casi non si sa se vi siano parenti che possano prendersi cura dei bambini.

Dove li avete sistemati?

Presso diverse famiglie SOS. Non ci sono parole per sottolineare quanto generose e sagge siano state le nostre mamme SOS nell’aprire le proprie case a questi nuovi ospiti. Tutte sono state d’accordo nel portare immediatamente aiuto, malgrado abbiano già enormi responsabilità da gestire. Abbiamo anche coinvolto i nostri bambini, dal momento che sono chiamati a condividere la propria casa. Tutto ha funzionato decisamente bene.


Ci si fermerà a quei 45 bambini?

Sono sicuro di no: la necessità è molto più elevata. Oltre a Nairobi abbiamo i Villaggi SOS di Eldoret, Meru e Mombasa, che utilizzeremo finché vi saranno stanze libere. SOS Villaggi dei Bambini ha lanciato un programma di emergenza. Nei primi giorni siamo già stati in grado di fornire piccoli aiuti. I nostri bambini, per esempio, hanno rinunciato a un pasto alla settimana affinché fosse dato ai rifugiati. Ora abbiamo preso misure estensive per fornire cibo a 2000 persone in collaborazione con la Croce Rossa e altre organizzazioni. Distribuiamo cibo, medicine e beni essenziali per le famiglie, specialmente per le mamme e i bambini.


C’è un programma specifico per i bambini rifugiati presso SOS Villaggi dei Bambini?

In primo luogo, è importante farli sentire al sicuro e in un luogo dove ci sono persone in grado di aiutarli. Se ne hanno bisogno ricevono cure mediche e sostegno psicologico post trauma. Tutti saranno messi in condizione di condurre una vita il più normale possibile, incluso andare a scuola. SOS Villaggi dei Bambini è in Kenya dagli anni settanta e beneficia della propria esperienza di lavoro con bambini traumatizzati o abbandonati. Lavoriamo anche in collaborazione con il governo nella ricerca dei parenti dei bambini.


Sembra che agli scontri e ai massacri tra i diversi gruppi etnici non ci sia fine. I Villaggi SOS sono a rischio?

Non direttamente, per fortuna, ma è evidente che nell’aria ci sono tensione e paura. Durante i primi giorni alcuni dei nostri colleghi non hanno osato uscir di casa, e quindi non hanno potuto venire al lavoro. Poi abbiamo consentito loro di rimanere nei Villaggi per un po’, mentre altri si sono mossi con colleghi che vivono in aree sicure.


I bambini, le mamme e i collaboratori che appartengono a diversi gruppi etnici vivono insieme nei Villaggi SOS. Questo causa problemi?

Ciò non deve costituire un problema! Ogni scontro che si sia verificato è stato tra gruppi etnici presenti nelle aree rurali. Nelle città non conta a quale gruppo etnico appartieni, e così è nei Villaggi SOS. Io stesso ancora non so a quale gruppo appartengano i miei colleghi. A me viene chiesto di essere sicuro che non siano in pericolo. E’ un’esperienza completamente nuova per me.


Come stanno reagendo i bambini al conflitto?

Ve lo racconto con un esempio: uno dei direttori di un nostro villaggio è di un gruppo etnico diverso da quello di sua moglie. Così il figlio gli ha chiesto: «Cosa sono io, papà?». Il padre ha risposto: «Se vuoi sapere da che parte stai, ti dirò che sei dalla parte della pace, dell’unità e della giustizia».


Come spiegate ai bambini cosa sta accadendo nel Paese?

Cerco di dir loro che le parti in opposizione non capiscono le rispettive ragioni. E che in Kenya ci sono squilibri: alcuni hanno più terre di altri, una miglior educazione e più soldi. Ciò porta al conflitto.


Che sviluppo pensi possano avere le cose in Kenya?

Il Kenya ha seri problemi sociali e c’è bisogno urgente di una soluzione, ma ciò non accadrà da un giorno all’altro. Posso solo sperare che gli scontri finiscano presto, perché la gente ha davvero bisogno di tornare a guadagnarsi da vivere. Il Kenya sta subendo grandi perdite economiche perché molte persone non stanno lavorando e anche perché i turisti preferiscono altre mete. Un hotel di Mombasa con 100 posti letto, che normalmente è al completo, in questi giorni ha solo 5 ospiti. E i voli dalla Francia e dall’Olanda sono quasi vuoti.


In che modo gli europei possono dare una mano?

Le persone ci aiutano mandando beni di soccorso. Il gesto è carico di buone intenzioni, ma purtroppo ha poco senso: all’aeroporto di Mombasa il servizio bagagli è bloccato. Passano tra le tre e le quattro settimane prima che possiamo ricevere una consegna. L’unico vero aiuto è il denaro, che possiamo usare per pagare gli interventi di emergenza e le cure per i bambini. Siamo estremamente grati a chi ce lo invia.

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