di Antonino Crivello
(ansa) "LAMPEDUSA (AGRIGENTO) - Tre morti, 47 superstiti e numerosi dispersi (una ventina secondo il racconto dei naufraghi). E' questo il bilancio dell'ennesima tragedia dell'immigrazione avvenuta nel Canale di Sicilia, a 75 miglia a Sud Est di Lampedusa, in una zona che ricade sotto la competenza maltese per quanto riguarda le operazioni di ricerca e soccorso."
Certo, parlare di statistiche quando ai numeri corrispondono persone, morti, scomparsi, è spesso disdicevole. E' altrettanto vero però che le tragedie che si consumano con regolarità allarmante devono pur essere analizzate e studiate, nella speranza di capire quanto meno con cosa si ha a che fare, per tentare di trovare delle soluzioni adeguate e evitare che “chi arriva” trovi una situazione ancor peggiore di quella che ha lasciato. A seguito di quest'ennesimo sbarco, il Ministro Maroni ricorda che un accordo tra Italia e Libia per il pattugliamento delle coste esiste già: "Aspettiamo solo il via libera del governo di Tripoli". Certo il pattugliamento potrebbe essere una soluzione, o almeno un tamponamento ad un fenomeno che si estende invece come un'emorragia. Meglio ancora, si potrebbe tentare di rafforzare il dialogo tra la marina italiana e quella maltese, libica e di tutti gli stati che si affacciano sul mar Mediterraneo.
Ma siamo certi che tutto ciò basti? Nonostante i controlli, nonostante i rischi che questi "viaggi della speranza" comportano, i profughi continuano a provarci, anche perchè non possono aver paura di perdere ciò che non hanno. Nulla in loro è più forte della disperazione.
Ovviamente, com'è ben noto, tale fenomeno incide sul paese "ospitante" (e in questo caso l'Italia è una meta prediletta) in termini di aumento di delinquenza e di (dis)ordine pubblico, visto che, ovviamente, la stessa disperazione che li porta ad attraversare i mari, li spinge a cercare di sopravvivere.
Leggi volte a migliorare e garantire la sicurezza della nostra nazione sono ben accette, ma spesso una soluzione per risolvere il problema alla radice non c'è, o non è stata mai trovata, o forse non è mai stata cercata (almeno così sembra…). Certo, le infrastrutture necessarie costano, e le tante già esistenti su tutto il territorio nazionale avrebbero bisogno di finanziamenti per svilupparsi e per migliorare il tenore di vita da offrire ai proprio "ospiti". Ma non c'è lucro in posti che offrono assistenza, e come spesso avviene nel nostro bel paese tali attività vengono curate da volontari, da associazioni cattoliche e da gente che tiene a cuore le sorti di queste persone più di quanto spesso sembrano tenerci i nostri politici nazionali, i nostri consigli regionali, le nostre amministrazioni locali.
Anzi, le norme attualmente vigenti stanno provocando situazioni ancor più al "limite" di quelle in cui queste persone già si trovano. Ormai molte strutture sanitarie pubbliche riscontrano la cosiddetta «clandestinità sanitaria», per cui i clandestini preferiscono non andare in ospedale a curarsi, anche in condizioni gravi, per paura di essere denunciati. Si tratta di una piaga gravida di disastrose conseguenze, un’emergenza – sostengono medici e associazioni di volontariato – aumentata in modo esponenziale da quando è all'ordine del giorno l'introduzione del reato di clandestinità. C'è bisogno di appellarsi allora al senso civico di ognuno di noi, sentire nella propria coscienza il dovere morale di offrire un sostegno profondo a queste persone, aiutarle a non aver paura anche di curarsi, un diritto fondamentale questo per ogni vita umana.
Probabilmente il problema non sarà mai risolto e nemmeno analizzato alle radici, ma continuare a sollevare la questione, continuare ad avere in mente le foto di migliaia di profughi, bambini e genitori disperati, è senza dubbio positivo. Magari così centinaia di “uomini” possono trovare la forza per reagire ed impegnarsi, anche solo per arrogarsi di nuovo il diritto di definirsi tali.
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