Michel Sabbah, primo Patriarca palestinese in Terra Santa, lascia il suo incarico...
PeaceReporter - Monsignor Sabbah, Patriarca Emerito della Chiesa Latina di Gerusalemme, sta toccando alcune città italiane per presentare il suo libro "Voce che grida dal deserto". 75 anni, primo Patriarca palestinese della storia, è giunto al termine del suo percorso ecclesiale per raggiunti limiti d’età. Per 20 anni, sin dalla consacrazione avvenuta nel 1988, per volontà di Giovanni Paolo II, è stato un personaggio che per le sue posizioni controcorrente ha suscitato reazioni contrastanti, subendo anche molte censure.
Non per niente ha deciso di raccogliere in questo libro i suoi scritti e i suoi messaggi integrali, come quelli scritti in occasione delle festività cristiane, che sono stati quasi sempre tagliati dai media. Una volta si chiamavano preti del dissenso, ora preti in prima linea. Definizione che gli calza a pennello, visto che vive in una terra in conflitto permanente. ''La Chiesa è parte del conflitto, non come tale, ma la gente, i fedeli, i pastori sono tutti coinvolti – dice – ma bisogna mettere fine al conflitto e all’ingiustizia. Non si può sottomettere un popolo alla propria autorità e occuparne i territori. Nello stesso tempo il popolo palestinese deve rispettare la sicurezza del popolo israeliano''.
Va bene, ma come arrivarci?
Per i cristiani c’è solo il comandamento dell’amore: amate anche i vostri nemici. Quando non si hanno nemici è facile, ma se vieni sottomesso e umiliato, è molto più difficile. Amare il soldato israeliano al check-point o nel suo tank è molto più difficile, sembrerebbe impossibile. In quel caso, però, amare non vuol dire farsi ammazzare, ma vedere il volto di Dio anche nel nemico, come persona umana creata e amata da Dio. Ci sono allora due vie: o la violenza o fermare la violenza e dialogare. Sono cento anni che ci si ammazza. Israele ha creato uno Stato con la guerra e la potenza militare, ma governo e popolo vivono nella paura. I palestinesi soffrono, ma non hanno paura perché un’anima non si uccide. Israele ha paura per l’avvenire, le armi non bastano a proteggerlo.
La Terra Promessa, la Terra Santa è stata promessa al popolo ebraico eletto da Dio per poter preparare la venuta del Salvatore. Non è una promessa geografica, ma una promessa che fa parte del mistero di Dio. Il popolo ebraico, è lui l’annunciatore di questo mistero di salvezza. Dio ha detto al popolo ebraico: questa terra è per voi, ma anche detto di rispettare i comandamenti: non uccidere; non si può prendere la terra rubando o ammazzando. Qui si sta facendo una guerra geografica e politica, non certo per il mistero della Redenzione. La violenza c’è da entrambe le parti, ma da parte israeliana c’è occupazione ingiusta. Oggi i capi politici israeliani, palestinesi e internazionali non parlano su basi bibliche, ma di trattati.
Israele parla di diritto alla sicurezza, il popolo palestinese chiede una vita dignitosa: qual è la soluzione?
E’ necessario un nuovo ordine di giustizia. Il conflitto in sé consiste nell’occupazione militare israeliana di territori palestinesi. Per Israele è una questione di sicurezza, di lotta contro il terrorismo, cioè dice: bisogna pensare al terrorismo, poi penseremo all’occupazione. Nell’incontro interregionale avvenuto in maggio tra istituzioni religiose in Terra Santa, presente anche il gran Rabbino, c’è stato anche l’intervento dell’ex ministra israeliana degli affari esteri, Tzipi Livni, ora chiamata a sostituire Olmert. Lei ha detto: ''Se il problema tra noi fosse una disputa tra territori sarebbe già risolto, ma è una lotta contro il terrorismo''. Ma io dico: il terrorismo ha una causa, l’occupazione, se cesserà allora cesserà o comunque diminuirà”.
Lei allora lo giustifica?
No, dico che bisogna analizzarne le cause. Oppressione e insicurezza sono legati. Olmert in una delle ultime dichiarazioni prima delle dimissioni ha dichiarato: ''Non possiamo continuare a occupare le terre palestinesi''. Potrebbe essere un buon segnale, ma è difficile fare previsioni.
In questo processo può avere ancora un ruolo la comunità internazionale, ci si aspetta qualcosa dal dopo Bush e dall’Unione Europea?
Il cambiamento non può venire da fuori. La comunità internazionale non è pronta per fare pressioni. E comunque il cambiamento deve venire da dentro''.
PeaceReporter - Monsignor Sabbah, Patriarca Emerito della Chiesa Latina di Gerusalemme, sta toccando alcune città italiane per presentare il suo libro "Voce che grida dal deserto". 75 anni, primo Patriarca palestinese della storia, è giunto al termine del suo percorso ecclesiale per raggiunti limiti d’età. Per 20 anni, sin dalla consacrazione avvenuta nel 1988, per volontà di Giovanni Paolo II, è stato un personaggio che per le sue posizioni controcorrente ha suscitato reazioni contrastanti, subendo anche molte censure.
Non per niente ha deciso di raccogliere in questo libro i suoi scritti e i suoi messaggi integrali, come quelli scritti in occasione delle festività cristiane, che sono stati quasi sempre tagliati dai media. Una volta si chiamavano preti del dissenso, ora preti in prima linea. Definizione che gli calza a pennello, visto che vive in una terra in conflitto permanente. ''La Chiesa è parte del conflitto, non come tale, ma la gente, i fedeli, i pastori sono tutti coinvolti – dice – ma bisogna mettere fine al conflitto e all’ingiustizia. Non si può sottomettere un popolo alla propria autorità e occuparne i territori. Nello stesso tempo il popolo palestinese deve rispettare la sicurezza del popolo israeliano''.
Va bene, ma come arrivarci?
Per i cristiani c’è solo il comandamento dell’amore: amate anche i vostri nemici. Quando non si hanno nemici è facile, ma se vieni sottomesso e umiliato, è molto più difficile. Amare il soldato israeliano al check-point o nel suo tank è molto più difficile, sembrerebbe impossibile. In quel caso, però, amare non vuol dire farsi ammazzare, ma vedere il volto di Dio anche nel nemico, come persona umana creata e amata da Dio. Ci sono allora due vie: o la violenza o fermare la violenza e dialogare. Sono cento anni che ci si ammazza. Israele ha creato uno Stato con la guerra e la potenza militare, ma governo e popolo vivono nella paura. I palestinesi soffrono, ma non hanno paura perché un’anima non si uccide. Israele ha paura per l’avvenire, le armi non bastano a proteggerlo.
La Terra Promessa, la Terra Santa è stata promessa al popolo ebraico eletto da Dio per poter preparare la venuta del Salvatore. Non è una promessa geografica, ma una promessa che fa parte del mistero di Dio. Il popolo ebraico, è lui l’annunciatore di questo mistero di salvezza. Dio ha detto al popolo ebraico: questa terra è per voi, ma anche detto di rispettare i comandamenti: non uccidere; non si può prendere la terra rubando o ammazzando. Qui si sta facendo una guerra geografica e politica, non certo per il mistero della Redenzione. La violenza c’è da entrambe le parti, ma da parte israeliana c’è occupazione ingiusta. Oggi i capi politici israeliani, palestinesi e internazionali non parlano su basi bibliche, ma di trattati.
Israele parla di diritto alla sicurezza, il popolo palestinese chiede una vita dignitosa: qual è la soluzione?
E’ necessario un nuovo ordine di giustizia. Il conflitto in sé consiste nell’occupazione militare israeliana di territori palestinesi. Per Israele è una questione di sicurezza, di lotta contro il terrorismo, cioè dice: bisogna pensare al terrorismo, poi penseremo all’occupazione. Nell’incontro interregionale avvenuto in maggio tra istituzioni religiose in Terra Santa, presente anche il gran Rabbino, c’è stato anche l’intervento dell’ex ministra israeliana degli affari esteri, Tzipi Livni, ora chiamata a sostituire Olmert. Lei ha detto: ''Se il problema tra noi fosse una disputa tra territori sarebbe già risolto, ma è una lotta contro il terrorismo''. Ma io dico: il terrorismo ha una causa, l’occupazione, se cesserà allora cesserà o comunque diminuirà”.
Lei allora lo giustifica?
No, dico che bisogna analizzarne le cause. Oppressione e insicurezza sono legati. Olmert in una delle ultime dichiarazioni prima delle dimissioni ha dichiarato: ''Non possiamo continuare a occupare le terre palestinesi''. Potrebbe essere un buon segnale, ma è difficile fare previsioni.
In questo processo può avere ancora un ruolo la comunità internazionale, ci si aspetta qualcosa dal dopo Bush e dall’Unione Europea?
Il cambiamento non può venire da fuori. La comunità internazionale non è pronta per fare pressioni. E comunque il cambiamento deve venire da dentro''.
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