venerdì, dicembre 26, 2008
Reportage sui nuovi skinhead russi

Mosca (PeaceReporter) - Provo ad aprire la mano per stringere la sua, ma non faccio in tempo. Un breve contatto e le sue dita aperte scorrono sotto il mio avambraccio per chiudersi quasi all’altezza del gomito. D’istinto, anche le mie premono sul suo gomito, e il gesto è quasi simultaneo. Metropolitana Tretiakovskaya, cuore di Mosca, sette di sera. Come Sergei, anche gli altri adolescenti, giunti con qualche minuto di ritardo all’appuntamento stabilito, si presentano a me con lo stesso rituale saluto, in un reciproco impugnarsi l’avambraccio. Hanno il cranio rasato e l’abbigliamento conforme ai dettami della loro sub-cultura: pantaloni con i risvolti in fondo, a mostrare gli anfibi lucidi, fibbie con svastiche e croci celtiche, tatuaggi, catenine di metallo che escono dalle tasche, piercing. Sono i giovani esemplari della nuova generazione russa di skinhead.

Delitti razziali. ‘Paièhali’, fa Sergei. ‘Andiamo’, e ci mettiamo in marcia verso il luogo dell’‘incontro’. Un luogo che fino ad ora mi è stato tenuto segreto. Mentre seguo i loro passi sulla neve fresca non posso che pensare al mio volto. Per tentare di dissimulare le mie chiare origini caucasiche ho provato a radermi. Ma so che non basterà certo questo a mettermi al riparo da qualche sguardo sospettoso, se non da eventuali, spiacevoli sorprese. Nel solo mese di gennaio, secondo i dati dell’organizzazione di monitoraggio indipendente ‘Sova’, i delitti a sfondo razziale in Russia sono stati tredici. Metà sono stati commessi a Mosca. Si ammazzano i ceceni, gli azeri, i kazaki, i tagiki, gli armeni, i georgiani. Si ammazzano i caucasici, appunto. I ‘culi neri’, come qui li chiamano quelli che li disprezzano. Li ammazzano gli skinhead. Appunto.

Revival slavo. La sorpresa, a prima vista, è invece piacevole: un palazzo ottocentesco ben curato e illuminato, di colore giallo ocra, con gli stucchi bianchi e i tendoni amaranto. La scritta rossa sul cancello recita: ‘Fondazione per la conservazione della cultura slava’. E’ uno degli istituti – mi viene detto – più onorati e finanziati del Paese. Specie da quando i russi, riavutisi dal collasso economico, dallo smarrimento sociale e dal trauma psicologico seguito alla dissoluzione dell’impero, si sono riscoperti russi. L’ascesa al potere di Putin si è accompagnata a una nuova ondata di nazionalismo, e la retorica anti-occidentale dell’ex presidente ha alimentato una frenetica riscoperta dei simboli, delle istituzioni e della cultura slava. In questo rinascimento identitario è stata la chiesa ortodossa a farsi veicolo della coscienza e dell’orgoglio nazionale. Infatti: dopo che il guardarobiere all’ingresso, incurante della provenienza e dell’abbigliamento degli ospiti, ha raccolto i giubbotti, vengo introdotto in un’ampio salone e presentato a un pope, un prete ortodosso. Gli otto ragazzi e le quattro ragazze skinhead si siedono attorno a un enorme tavolo circolare.

La fede che purifica. Padre Pavel, occhi azzurri e barba folta, lunga fino al petto, comincia così il suo informale sermone: “Preparatevi a difendere la vostra madrepatria”. La predica abbonda di metafore, riferimenti storici, richiami al mito. Come un maestro di scuola media con i propri allievi, dopo l’esposizione di ogni concetto, il religioso fa una pausa per verificare la loro attenzione. Li scruta, uno ad uno, mentre procede nell’opera di indottrinamento. “Bisogna pregare, perché è nella fede che si trova l’antidoto al male. La fede può salvarvi da ogni peccato”. Qualcuno sghignazza, altri si lanciano occhiate complici. I più attenti hanno lo sguardo sostenuto, le braccia conserte e i tatuaggi in bella vista. “Solo con la preghiera l’animo si può purificare”. Pone anche domande, padre Pavel: “Perché bisogna difendere la nostra madrepatria?”. “Per evitare le invasioni, le aggressioni che minacciano il Paese”, gli viene risposto. “Durante il periodo imperiale – continua il sacerdote – il crimine più grave era quello contro la fede ortodossa. Sappiate che anche oggi il nostro Paese sta subendo un’occupazione. Anche oggi la fede e la nazione sono minacciate. E poiché la fede è lo spirito della nazione, può essere necessario difenderla anche con la spada. Ma se non potete combattere contro il male, almeno non dovrete prendervi parte”.

Ebrei e musulmani. Le allegorie a volte lasciano il posto ad allusioni ben precise, e il ‘male’ prende progressivamente forma, incarnandosi non più in un generico nemico esterno, ma in qualcosa dalla fisionomia ben più concreta: “Guardate i musulmani cos’hanno fatto ai nostri fratelli, prigionieri in Afghanistan e in Cecenia. Come si può torturare e uccidere in nome di Dio? Le moschee stanno spuntando come funghi in Russia. Se non combattiamo questa pericolosa tendenza, un giorno ci sveglieremo e la Russia sarà musulmana”. Poi, nuovamente, un appello alla fede e alla preghiera: “Solo con l’aiuto della fede ci si può salvare. Le preghiere purificano e difendono l’uomo in battaglia. Conoscete la storia di quel soldato russo che, nella Seconda guerra mondiale, pregò tutta la notte e il giorno successivo riuscì a uccidere in battaglia diciannove tedeschi, e senza sprecare un proiettile?”.

La difesa della patria. “Padre, ma allora uccidere è o no peccato?”. “Poiché la vita non è perfetta – dice il pope, evitando sempre di rispondere direttamente alla domanda – a volte bisogna impugnare la spada e punire. Ricordate però che il miglior modo per difendere la nostra terra dai colonizzatori è quella di purificare le loro anime con la fede”. “Padre – fa uno – abbiamo diritto all’estremismo in casa nostra?”. “Dato che non è possibile cacciare definitivamente gli scarafaggi di casa – senza ovviamente citare chi siano gli scarafaggi – allora è necessario tenere pulita la casa. Ricordate anche – a degna conclusione del ragionamento – che l’ebraismo è come il satanismo. La sopravvivenza della madrepatria dipende da voi”. Qualche secondo di pausa e, prima che il discorso termini, estraggo la macchina fotografica dallo zaino. Improvvisamente i ragazzi si agitano. Alcuni si coprono il volto, altri mi fanno cenno di ‘no’ con la mano. Il padre continua imperturbabile a parlare, mentre mi allontano per evitare primi piani indesiderati. Riesco a cogliere solo alcune immagini d’insieme.

Wehrmacht originale. Padre Pavel ha finito. Uno dei ragazzi, arrivato nel salone quando l’incontro era già iniziato da un pezzo, mi si avvicina: ‘Giurnalist?’. ‘Sì’, faccio io. In un gesto di spavalda vanteria si alza la felpa e mi mostra un tatuaggio con la bandiera russa, sotto la quale c’è scritto ‘russo’ come un marchio di fabbrica. La fibbia della cintura è originale, dice, apparteneva a un ufficiale della Wehrmacht, l’esercito nazista. A ruota, anche gli altri scoprono il petto, le braccia, i polpacci per mostrarmi i loro tatuaggi. Una ragazza ha la fibbia con la croce celtica, un’altra una svastica con decorazioni tribali sulla gamba. Quello che si è scoperto per primo si chiama Igor, ha 28 anni ed è il capo dei giovani di Slavianskiy Soyuz (Unione slava), l’organizzazione neo-nazista che mi ha fornito il contatto con Sergei e consentito di partecipare all’incontro con padre Pavel. “Sarò uno skinhead fino alla morte”, esclama Igor, con la voce rauca. “Sono membro dell’organizzazione da un anno circa. Cercavo un movimento che fosse in grado di arrestare il declino del nostro Paese. E l’ho trovato in Slavianskiy Soyuz”.

Supremazia ariana. Prendete parte a pestaggi e omicidi di stranieri? “Io personalmente non mi batto più in strada. Ma se vedo uno straniero che si comporta male verso un cittadino russo, allora certo che difendo il mio connazionale”. Saprò più tardi che il suo predecessore è stato condannato a dodici anni per omicidio. Sergei, invece, di anni ne ha 21. Sa come imporre il suo credo, basato su rispetto e onore: “Quando mi trovo in strada, se uno non ci sente a parole, uso le mani. Io, quando un ceceno o un daghestano dice a una nostra donna ‘Vieni qui, bella figa’, mi sento personalmente insultato. Così come mi offende vedere una nostra donna che esce con un caucasico, quelli pieni di soldi, coi macchinoni. Quelli arroganti. Non considero russi i loro bambini. Noi facciamo quello che la polizia non fa”. “Siamo per la razza ariana”, lo interrompe uno, a cui fa eco una ragazza poco più che maggiorenne: “Siamo per la supremazia dei bianchi”. Lo dice con un sorriso, spalleggiata dagli altri, che si mettono in posa per una foto con il braccio alzato. Sorridono tutti, mentre fanno il saluto fascista. Come se fosse un gioco. Quale sarà la reazione di questi adolescenti alle parole di padre Pavel? Cosa faranno una volta che si troveranno davanti il ‘male’?

L'ideologo. Sono venuto qui per avere un’idea di chi fossero i militanti skinhead di Slavianskiy Soyuz, due parole le cui iniziali formano un inquietante accostamento. Mi ci ha mandato il capo del movimento in persona: giorni prima aveva accettato un’intervista dopo che, sul suo sito, avevo trovato il suo numero di cellulare. Si chiama Dimitry Demushkin, e non immaginavo sarebbe stato tanto facile contattarlo. L’idea che mi ero fatto era di un soggetto che agisce in totale clandestinità, ricercato dalla polizia e perseguitato dalla legge, in quanto leader di un’organizzazione che esalta la superiorità bianca e incita al razzismo. E che, per di più, ha visto un centinaio di suoi membri incarcerati, 40 dei quali nella sola Mosca, perché accusati di svariati omicidi a sfondo etnico. “Rigettiamo categoricamente ogni accusa”, ha esordito quando ci ha accolto nel suo ufficio, in un caseggiato anonimo fuori della metro Kolomenskaya, poco più a sud del centro. Il locale è disadorno, due scrivanie da un lato, alcuni scatoloni, pacchi e depliant sparsi qua e là, un mobile-libreria in legno nero sul quale troneggia una collezione di icone ortodosse. Per rendere l’ambiente più idoneo all’occasione, un collaboratore di Demushkin tira fuori una bandiera rossa con la scritta Slavianskiy Soyuz e l’appende al muro.

Nazionalsocialismo russo. Il leader di Ss non guarda mai negli occhi quando risponde alle domande. E’ uno skinhead anche lei? “Lo sono stato. Ho fondato io il primo gruppo organizzato di skinhead russi, il Beye Bulldogi (Bulldog Bianchi), agli inizi degli anni ’90”. Cosa vuol dire essere skinhead? “Partecipare a una sottocultura di protesta giovanile che si sta sviluppando in una forma molto attiva”. Come è nato il suo movimento? “Da una scheggia di Unità Nazionale Russa (partito e formazione paramilitare di estrema destra al bando, ndr)”. Ci spiega in cosa consiste, qual è la sua ideologia, quanti membri ha? “Non è possibile fare stime precise. Anche se i membri attivi non sono molti, la nostra capacità di influenza è abbastanza estesa, anche tra soggetti eterogenei. Un gruppo musicale che si chiama Zyklon B, per esempio, ha un fan club di circa un centinaio di persone. Non sono membri, ma ‘simpatizzano’ per noi. Un altro gruppo di simpatizzanti di Ss è costituita dai capi delle bande di bikers (motociclisti, ndr). In Russia, Ss è il gruppo nazionalsocialista più influente. Alcuni membri del governo e del parlamento condividono la nostra ideologia, così come sportivi, scienziati, intellettuali. Dal '99 la nostra posizione è rimasta intransigente, rigorosa, dal punto di vista ideologico. Siamo per la tutela della lingua, della cultura e dell’unità del popolo slavo. Siamo una formazione nazional-socialista, che ha profondi legami con la religione ortodossa. La finalità della nostra organizzazione è la propaganda, con tutti i mezzi possibili”. Quanti siete? “Circa cinquemila”. Quaranta dei quali sono finiti in carcere. “Quelli finiti in carcere hanno agito per conto proprio. Noi rigettiamo categoricamente ogni accusa”. Per cosa sono stati condannati? “Per estremismo, percosse, incitamento all'odio etnico, omicidio, terrorismo e altro”. Quindi lei non si sente responsabile della campagna di odio, dei pestaggi e degli omicidi commessi dagli estremisti di Ss in questi anni? “No, assolutamente. Chi ha commesso questi delitti ha agito non in nome dell'organizzazione, ma stravolgendo il suo credo ideologico. Quando non possono condannare l'organizzazione, cercano di condannare i singoli membri.”. Che lavoro fa? “Un po’ di tutto. Organizzo concerti, festival, corse motociclistiche, eventi sportivi. Adesso stiamo preparando il campionato mondiale di lotta senza regole. Mi interessa il mondo informale, quello che succede nelle strade. Mi interssa la cultura alternativa”.

La denuncia della Politkovskaya. Mi congedo con una stretta di mano neutra, che nulla ha a che fare con il saluto dei giovani skinhead che avrei ‘imparato’ qualche giorno dopo. In apparenza, quest’uomo potrebbe essere un banale impiegato, che lavora in un ufficio banale e fa un lavoro banale. Eppure, sul suo sito, www.demushkin.com, fino allo scorso anno comparivano svastiche, link a siti di skinhead, braccia levate nel saluto romano, e un manuale dal titolo 'Nazional-socialismo mistico: 1488 parole'. L’88 è il saluto nazista (Heil Hitler, essendo la ‘H’ l’ottava lettera dell’alfabeto), le 14 parole sono: “Noi dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e il futuro per i bambini bianchi”. Lo stesso Demushkin fu arrestato nel 2006 in relazione a un attentato a una moschea, dove una bomba esplose senza provocare vittime. La sua casa fu perquisita e alcune bandiere di Ss sequestrate. Il 20 agosto 2004, l’organizzazione antifascista ‘Movimento giovanile per i diritti umani’ ricevette una lettera che minacciava una “notte dei lunghi coltelli” per “Yurov e Alekseeva”, che sarebbero stati “i prossimi dopo Girenko”. In allegato, la foto di un cecchino. Andrey Yurov era all’epoca il presidente del Movimento giovanile per i diritti umani, Ludmila Alekseeva la direttrice del Moscow Helsinki Group, istituzione nata per opporsi al neo-nazismo. Nikolay Girenko, un consulente antifascista le cui perizie servirono a incarcerare diversi skinhead, fu assassinato il 19 giugno 2004. L’autore della lettera, secondo il sito d’informazione russo ‘MosNews’, era proprio Dimitry Demushkin. “Slavianskiy Soyuz – la cui sigla in russo è Ss – divulgava sul suo sito che l’omicidio era preparato da tempo. Appariva un giovane vestito con l’uniforme delle guardie d’assalto nazionaliste, pistola alla mano e, sotto, la frase: 'In Memoriam, Girenko'. I siti non sono stati chiusi. I loro proprietari e moderatori non sono stati incriminati”. Così scriveva Anna Politkovskaya, nel suo Diario russo, il 19 giugno 2004.

Zyklon B. In Russia molte aggressioni a sfondo razziale non vengono denunciate per paura. La risposta delle autorità è stata in passato assai debole, se non del tutto inefficace, perché la giustizia penale russa solitamente classifica tali episodi come ‘atti di vandalismo’, invece di far riferimento all’articolo 282 del Codice penale, che li qualifica espressamente come ‘delitti razziali’. Per qualche oscura associazione mentale, ripensando all'intervista a Demushkin torna alla memoria il nome del gruppo musicale da lui citato, ‘Zyklon B’. Solo ora ricordo perché il nome mi era in qualche modo familiare. Solo ora che mi appare davanti agli occhi una stanza delle baracche di Auschwitz, quella adibita a museo. In un angolo, accanto alle matasse dei capelli, alle scarpe, ai vestiti degli scomparsi, c’era una catasta di barattoli vuoti. Contenevano il gas letale che uccise milioni di persone. Su ciascuno, la stessa scritta: ‘Zyklon B’.

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