lunedì, luglio 06, 2009
Nove anni dopo il Summit che aveva promesso di dimezzare il numero degli indigenti, la sicurezza alimentare rimane un miraggio per il Terzo Mondo. Mancava solo il boom dei prezzi dei prodotti agricoli

Tempi.it - Di sicurezza alimentare il G8 ha cominciato ad occuparsi soprattutto nell’edizione giapponese dello scorso anno, svoltasi all’indomani della deflagrazione della crisi planetaria dei prezzi dei generi di largo consumo. «Siamo profondamente preoccupati per il fatto che il continuo aumento dei prezzi globali degli alimenti abbinato a problemi di approvvigionamento in un certo numero di paesi in via di sviluppo stia minacciando la sicurezza alimentare globale», scrivono i capi di Stato e di governo nella loro dichiarazione sulla Sicurezza alimentare globale al termine dei lavori del summit di Hokkaido-Toyako 2008. «Abbiamo deciso misure addizionali per offrire soccorso a coloro che soffrono a causa dell’insicurezza alimentare o della fame, e oggi rinnoviamo il nostro impegno ad affrontare questa crisi strutturale e dalle molte facce. (…) Dal gennaio 2008 abbiamo preso impegni a breve, medio e lungo termine per oltre 10 miliardi di dollari per aiuti alimentari, interventi nutrizionali, attività di protezione sociale e misure per incrementare la produzione agricola nei paesi colpiti». L’Italia ha poi deciso di riunire, per la prima volta nella storia del G8, un vertice dei ministri dell’Agricoltura in preparazione del summit a presidenza italiana di quest’anno. Si è svolto a Cison di Valmarino (Treviso) fra il 18 e il 20 aprile e si è concluso con un documento che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto e promesso a Hokkaido, ma che invita il G8 vero e proprio, quello che si riunisce all’Aquila fra l’8 e il 10 luglio, a portare avanti il grande progetto del Partenariato globale per la sicurezza alimentare che era stato lanciato in Giappone.
Le Ong della cooperazione allo sviluppo internazionali, però, non sono davvero convinte che il G8 sia sincero nei suoi impegni finanziari, per non parlare di tutti gli altri argomenti sul tappeto in materia di sicurezza alimentare. Si legge in un documento a cura di Oxfam International e della sua consociata italiana Ucodep: «L’aiuto globale all’agricoltura è diminuito dal 18 per cento dell’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) negli anni Ottanta fino al 4 per cento degli aiuti nel 2007, quando gli aiuti all’agricoltura hanno raggiunto un totale di 5,9 miliardi di dollari. Una cifra insignificante se paragonata ai pagamenti diretti dei paesi dell’Ocse al loro settore agricolo, stimati a 125 miliardi di dollari all’anno». Insomma, basterebbe ridurre anche solo del 10 per cento i sussidi all’agricoltura dei paesi Ocse per liberare risorse pari al doppio di quelle erogate oggi a favore della produzione nel Terzo Mondo.
Dunque è anche per questo che bisogna «assicurarsi che i 50 miliardi di dollari promessi dal G20 ai paesi più poveri per la crisi economica globale arrivino rapidamente e senza condizioni pregiudiziali e contribuiscano a ridurre la vulnerabilità attraverso la creazione e il miglioramento di politiche di protezione sociale che riducano la fame, migliorino la sicurezza alimentare e sostengano la produttività dell’agricoltura. Questi fondi devono essere addizionali e separati dai 50 miliardi di dollari supplementari che i leader del G8 hanno promesso di allocare ogni anno al loro Aps entro il 2010». Attualmente l’Aps totale dei paesi dell’Ocse si aggira sui 120 miliardi di dollari. Le organizzazioni dell’umanitario dunque si aspettano che nel 2010 la cifra quasi raddoppi arrivando a 220. Difficile crederlo realistico, quando si tiene presente che nei prossimi anni il debito interno dei dieci paesi più ricchi del mondo aumenterà di 9 mila miliardi di dollari a causa della caduta delle entrate fiscali e dei costi delle politiche antirecessive (salvataggio di banche in fallimento, sussidi per la disoccupazione, stimolo della crescita attraverso la spesa pubblica). Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) la media percentuale del debito pubblico rispetto al Pil dei dieci paesi più ricchi del mondo toccherà il 106 per cento, per salire nel 2014 al 114: nel 2007 (solo due anni fa) stava al 78 per cento. Come possano aumentare fin quasi al raddoppio gli aiuti dei paesi ricchi ai paesi poveri in un tale contesto, non si riesce francamente a vedere. E ciò rende più allarmante il quadro dei rischi per la sicurezza alimentare.

Ci vorrebbe una Rivoluzione Verde
A causa della crisi del 2008, secondo la Fao il numero degli affamati nel mondo è salito a 963 milioni alla fine dell’anno scorso, 40 milioni in più di quanti ne erano stimati alla fine del 2007. I prezzi dei principali cereali sono diminuiti di oltre il 50 per cento rispetto ai picchi dei primi mesi del 2008, ma restano più alti di quanto erano negli anni precedenti. Se guardiamo al Fao Food Price Index, l’indice dei prezzi alimentari che risulta dalla media di sei tipi di prodotti (carne, latticini, cereali, olii e grassi, zucchero e riso), scopriamo che nell’aprile 2009 è sceso a 143 punti dopo che nel giugno 2008 aveva toccato i 214; ma nel non lotanto ottobre 2006 registrava 122 punti. Entrando nel dettaglio delle singole voci si scoprirebbe che i cereali costano ancora il 50 per cento in più di tre anni fa, e il riso il 100 per cento in più.
Già prima della crisi dei prezzi del 2008 il numero degli affamati nel mondo aveva ripreso a crescere. Sceso a 826 milioni nel triennio 1996-98 (792 dei quali nei Pvs, i Paesi in via di sviluppo), ha ripreso ad aumentare nonostante l’impegno globale fissato al Summit del Millennio di dimezzare il numero degli affamati del 1990 (842 milioni) entro il 2015. Almeno a livello di incidenza percentuale, la lotta alla fame ha segnato progressi costanti fino al 2005, quando la proporzione degli affamati nei Pvs sulla popolazione totale era scesa al 16 per cento (nel 1950 era il 50, nel 1980 il 28); ma nel 2008 ha ripreso a risalire e ora è pari al 17 per cento.
L’andamento percentuale della fame nel mondo è una dimensione da non trascurare. Il mondo del 1950, abitato da 2,5 miliardi di esseri umani, era cosa ben diversa dal mondo di oggi, popolato da 6,7 miliardi di viventi. Che contemporaneamente al quasi triplicamento della popolazione sia stato possibile ridurre la percentuale degli affamati nei paesi poveri dal 50 al 17 per cento dovrebbe essere motivo di orgoglio, mentre non se ne parla mai. Tale miglioramento è stato ottenuto aumentando l’estensione delle terre coltivate (attualmente 1,5 miliardi di ettari) di poco, ma incrementando fortemente la rendita per ettaro. In un quarto di secolo indiani e cinesi hanno potuto incrementare la produttività delle loro risaie dei due terzi grazie alla cosiddetta Rivoluzione Verde degli anni Settanta, che ha introdotto nel Terzo Mondo varietà selezionate di semi ad alto rendimento, fertilizzanti sintetici e pesticidi. Oggi India e Cina da sole contano ancora oltre 350 milioni di affamati, ma questi rappresentano una minoranza di popolazioni complessive che hanno entrambe superato il miliardo; le percentuali più scoraggianti di affamati (fra il 40 e il 76 per cento della popolazione nazionale) si trovano là dove la Rivoluzione Verde non è ancora arrivata: in Africa.
Proprio alla luce di ciò, quello che più colpisce della crisi dei prezzi del 2008 è che essa non coincide con una crisi di produzione, al contrario: nel 2008 la produzione cerealicola mondiale ha toccato il record di tutti i tempi con 2.164 milioni di tonnellate, pari a un incremento del 2,6 per cento sulla produzione del 2007, che a sua volta era stato un anno record. Nonostante questo, le scorte hanno toccato il minimo storico dal 1980: appena 405 milioni di tonnellate. Ciò è avvenuto principalmente per la ragione che in Asia è aumentato il consumo di carne, e questo ha comportato un forte aumento del consumo animale di cereali e affini. Per produrre un chilo di carne per alimentazione umana ci vogliono da cinque a dieci chili di mais o equivalenti, a seconda dell’animale allevato. E in Cina il consumo di carne è passato dai venti chili pro capite del 1980 ai cinquanta di oggi.
La cosa non poteva non avere un effetto sulla disponibilità globale dei cereali e sul loro prezzo.

Otto miliardi di bocche da sfamare
Altri due fattori spiegano l’impennata dei prezzi. Il primo è la sciagurata decisione di Stati Uniti e Unione Europea di usare i terreni agricoli per produrre biocarburanti anziché generi alimentari. Gli Usa si sono dati per obiettivo di quintuplicare il carburante da bioetanolo entro il 2022, l’Europa si è imposta l’obbligo di coprire il 10 per cento dei suoi consumi di carburante per autotrasporto da qui al 2020 col medesimo bioetanolo. Nello stesso periodo la popolazione mondiale passerà dagli attuali 6,7 miliardi di abitanti a otto. Con milioni di ettari di terra fertile sottratta alla produzione alimentare, il prezzo del cibo non potrà che aumentare, insieme al numero degli affamati. Senza che il problema del caro-carburante ne tragga giovamento: la resa energetica del bioetanolo da mais presenta un coefficiente massimo dell’1,2, cioè per ogni unità di energia consumata se ne producono appena 1,2. Mentre la resa energetica dei derivati del petrolio sta fra 5 e 15.
L’altro fattore che ha determinato l’aumento dei prezzi (e poi la loro parziale ridiscesa) è il prezzo del petrolio, che ha spinto la sua folle corsa fino ai 120 dollari al barile di metà 2008, per poi scendere fino a 50 dollari e ancora risalire ai 73 del giugno 2009. L’aumento del costo dell’energia ha avuto un forte impatto sui costi della produzione agricola: il prezzo dei fertilizzanti e quello del trasporto dei materiali e dei prodotti agricoli dipende dal prezzo del carburante. Negli Stati Uniti il costo dei fertilizzanti è aumentato del 150 per cento negli ultimi cinque anni: esso ora incide per il 25-30 per cento sui costi di produzione dei cereali. Nel mondo il prezzo dei fertilizzanti e delle sementi è raddoppiato fra il 2006 e oggi.
Per risolvere i problemi posti da questi fattori il G8 propone una Partnership globale per la sicurezza alimentare alla quale associare tutti gli enti delle Nazioni Unite interessati, gli istituti specializzati pubblici e privati, i governi dei paesi interessati. Non sarà facile mettere a punto linee strategiche che trovino tutti d’accordo. Sull’aumento degli investimenti in ricerca agricola si dovrebbe ottenere il consenso unanime. Ma su materie come la riduzione o cancellazione dei sussidi all’agricoltura dei paesi Ocse, la rinuncia ai programmi per la produzione di bioetanolo per avere più terra da dedicare alle coltivazioni alimentari, l’introduzione di coltivazioni Ogm su larga scala, la lotta al caro petrolio riproponendo su vasta scala l’energia nucleare, il consenso non sarà facile da trovare. Si tratta, tuttavia, di passi necessari se si vuole garantire l’alimentazione di 8 miliardi di persone nel 2020.

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