del nostro redattore Renato Zilio
Un venerdì di fine aprile mi trovavo a Rabat, vicino al palazzo reale. Dopo la sua visita - come sempre, straordinaria! - mi avvicino alla grande moschea proprio a due passi, sono quasi le 13.00. Proibito entrare per i non musulmani! vi trovo scritto davanti. È la prima volta che incontro alle porte di una moschea questa raccomandazione tacita e abituale. Un senso di esclusività dello spazio segna il territorio di preghiera del musulmano. Si vive la logica dell’analogia, del simile. Il ritrovarsi tra i suoi è sacro: nessuna confusione con altri!
Mi siedo, allora, sotto l’ombra degli alberi accanto. In un’atteggiamento di contemplazione guardo questo movimento rapido, affrettato di uomini, di giovani e di donne che si recano alla preghiera comunitaria. Mi sembra di intravedere questo stesso movimento della nostra gente, che si affretta verso la chiesa alla domenica, per l’appuntamento con l’assemblea credente. Con Dio. Chiudo gli occhi qualche istante… ed ecco che aprendoli - come per miracolo! - mi ritrovo tra decine e decine di musulmani, che mi hanno letteralmente circondato. Tutt’attorno, ben allineati, con i loro piccoli tappeti. Sono, così, in mezzo a un centinaio di persone che seguono la preghiera, rilanciata dall’interno attraverso un altoparlante. È vero, mi dico, non sono entrato nella moschea, ma la moschea… è venuta a me!
Resto fermo, immobile come una statua, durante il discorso dell’imam, i rakah cioè i gesti rituali di prostrazione, le corte risposte alla preghiera, un Amin finale. Situazione paradossale. Un sentimento ambivalente di estraneità e di empatia mi prende, mi invade. Da sempre, infatti, il rapporto dell’uomo con il suo Dio possiede un senso intenso di mistero, di esclusività e di privilegio che sorprende chi sta a guardare…
Alla fine della preghiera mi attardo con due giovani. Mi spiegano che questo allineamento così preciso e rigoroso – come dei grani di sabbia – significa posarsi davanti a Dio nell’eguaglianza tra tutti i credenti. Semplice e significativo. E che il gesto più bello per un credente è toccare la propria fronte per terra, riconoscersi abd Allah cioè schiavi di Dio. Senso profondo della prosternazione.
Ma quale differenza, mi dico, con la posizione del corpo dei cristiani in preghiera! Rivedo la splendida figura dell’orante nelle catacombe romane nello stesso atteggiamento di preghiera delle prime comunità cristiane. In piedi, il corpo ben eretto, le mani aperte, il palmo rivolto in alto, gli occhi verso il cielo. I discepoli del Signore pregano nella posizione del risorto, dell’uomo libero, in piedi e in piena dignità.
Ripenso, così, alla curiosa osservazione di Rodrigo, un nostro giovane musicista, che ascoltando con attenzione l’appello del muezzin osservava: « Ecco, questo è come un lungo lamento… non c’è la gioia delle campane per la preghiera dei cristiani. Sì, alla domenica, ritrovare quel senso festivo della resurrezione del Signore!»
Guardo, intanto, la città, i suoi quartieri popolari, il formicolío di gente, di persone anziane con una lunga djellaba marron, riascolto l’invito alla preghiera che ritma tutta la loro giornata… Una città musulmana, in fondo, è un grande monastero. Ed è quando lo spazio, il tempo e gli esseri viventi sono impastati del senso di Dio. E unicamente, come in questa religione, della sua onnipotenza. Allah akbar! (Dio è il più grande).
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