mercoledì, luglio 21, 2010
del nostro collaboratore Bartolo Salone

Come è noto, il 15 luglio 2010 è stata approvata in Argentina una legge che non solo legalizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma consente altresì alle coppie omosessuali sposate di presentare domanda di adozione e (limitatamente alle coppie lesbiche) di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Col nuovo diritto di famiglia l’Argentina si adegua - primo Paese sudamericano - alla soluzione già seguita da altre Nazioni americane (in cinque Stati U.S.A. e in alcune regioni del Canada è del pari consentito alle coppie omosessuali di contrarre matrimonio e di adottare bimbi) ed europee (Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Islanda, Regno Unito).

La tendenza in atto è indicativa della sempre maggiore influenza che il mondo della militanza gay esercita sulle agende politiche dei principali Paesi occidentali e della prepotenza con cui gli attivisti omosessuali riescono ad imporre a livello legislativo la loro distorta visione del matrimonio e della famiglia anche contro il comune buon senso, sacrificando, se necessario, l’elementare diritto dei più piccoli, pur riconosciuto da diverse convenzioni internazionali, ad avere un padre e una madre.

Non che il desiderio di genitorialità sia di per sé illegittimo, ma è evidente che esso non possa esplicarsi in contrasto con il superiore interesse del minore. Sono i bambini ad avere diritto ad una famiglia unita e non viceversa gli adulti ad avere dei figli a tutti i costi. Quello dei bambini è un diritto vero e proprio contro una mera “aspirazione” alla genitorialità degli adulti; quindi, in caso di conflitto, dovrebbe essere logicamente il diritto dei piccoli a prevalere. Purtroppo oggi questo concetto si va via via smarrendo e non di rado accade, nel dibattito pubblico, di sentir parlare di “diritto a diventar genitori”, come fosse un diritto della personalità che non ammette limitazioni esterne, men che meno nell’interesse di quelle persone (i nascituri) a cui tale preteso diritto dovrebbe esser funzionalizzato. Il bambino, in questa aberrante visione della genitorialità, diventa così, da soggetto, oggetto dell’altrui diritto, con conseguente squalificazione del suo essere persona.

Questo, ad essere onesti, è quel che succede a proposito della cosiddetta “omogenitorialità”: se l’essere genitori è un diritto soggettivo, anzi un diritto della personalità, non sarebbe discriminatorio – si sostiene – farne dipendere il giuridico riconoscimento dall’orientamento sessuale? Chi l’ha detto poi che gli omosessuali non possano essere dei buoni genitori?

Porre la questione in questi termini tuttavia è fuorviante, perché qui non si discute della competenza genitoriale della persona omosessuale in quanto tale (non si discute cioè della capacità di un padre o di una madre con tendenze omosessuali più o meno radicate a crescere il proprio figlio), bensì del diverso problema dell’incidenza che sul bambino ha un determinato modello di famiglia. E precisamente due sono i quesiti che vengono in rilievo: 1) le cosiddette “famiglie arcobaleno”, con genitori entrambi dello stesso genere, sono un luogo adatto per la crescita sana ed equilibrata dei bambini? 2) ammesso che lo siano, sarebbe in ogni caso meglio per il bambino avere una o più diverse figure genitoriali di riferimento?

I pochi studi condotti sul campo (essendo le famiglie gay un fenomeno relativamente recente) sembrerebbero confortarci circa la prima delle due evidenziate questioni. Pare, cioè, che non vi siano significative differenze tra i figli allevati da coppie etero e quelli allevati da coppie omosessuali sotto il profilo del rendimento scolastico e della qualità delle relazioni interpersonali. La non completa serenità dei bambini, in qualche caso riscontrata, dai sostenitori dell’omogenitorialità viene imputata o al pregiudizio sociale o all’essere le famiglie arcobaleno spesso e volentieri delle famiglie “ricostituite”, ossia delle famiglie nate dalla disgregazione di precedenti unioni familiari, per cui i bambini ivi cresciuti presenterebbero né più né meno che gli stessi problemi dei figli degli altri genitori separati o divorziati (il che, sia detto per inciso, è poco rassicurante e sta a testimoniare, oltre al carattere in molti casi “destabilizzante” dell’omosessualità, spesso causa della rottura di precedenti relazioni matrimoniali, l’accettazione ormai generalizzata del principio per cui prima viene la felicità dei genitori e poi, in subordine, quella dei figli, che, volenti o nolenti, devono seguire il genitore affidatario in un contesto familiare completamente diverso da quello d’origine).

In realtà, a parte le critiche di metodo da taluno sollevate, le quali non possono essere in questa sede approfondite (basti accennare per il momento solo al fatto che si tratta di studi che, servendosi dell’intermediazione di gruppi e associazioni gay per l’individuazione dei campioni da esaminare e non di campioni casuali, risultano poco significativi da un punto di vista statistico, per cui i relativi risultati andrebbero valutati con molta più cautela), una significativa differenza tra i gruppi di bambini cresciuti all’interno di famiglie eterosessuali e quelli cresciuti all’interno di unioni omosessuali è dato riscontrarla e riguarda proprio l’approccio alla sessualità: i figli di omosessuali, soprattutto di lesbiche, a quel che sembra, hanno più probabilità di prendere in considerazione relazioni omosessuali rispetto ai figli di eterosessuali. Questo dato potrà non preoccupare quanti interpretano lo stile di vita omosessuale come qualcosa di assolutamente “neutro” da un punto di vista etico-sociale. Così non è per chi invece vuole interrogarsi più in profondità sul significato della sessualità umana, sforzandosi di andare oltre la concezione meramente edonistica del sesso inteso come mezzo di piacere. Tale concezione che lo stile di vita omosessuale esprime (è risaputo e statisticamente provato che nel corso della loro vita gli omosessuali sono soliti cambiare con estrema facilità il partner, al punto che sono poche le relazioni che durano più di due anni e, per lo più, quelle durature sono sovente delle relazioni “aperte”, che non contemplano cioè il requisito della reciproca fedeltà), impoverisce i rapporti ed è inconciliabile con una visione matura dell’amore e del matrimonio, risultando così estremamente pericolosa per la tenuta stessa del tessuto sociale (oltre che per la salute dell’individuo, visto che non a caso fra gli omosessuali si registra, a causa della promiscuità dei rapporti, un altissimo tasso di malattie sessualmente trasmesse). Se tra le competenze genitoriali includiamo dunque anche la capacità di trasmettere solidi valori morali, non possiamo guardare con molto ottimismo alla omogenitorialità, in quanto la visione dell’amore e della relazione matrimoniale espressa dalle unioni gay (tanto “aperte” quanto instabili) è, da un punto di vista valoriale, estremamente povera.

Fermo restando quanto detto, rimane l’altro quesito: si può seriamente sostenere che per un bambino avere un padre e una madre sia la stessa cosa che avere un solo genitore o avere due “genitori” dello stesso sesso? Due padri possono in tutto e per tutto sopperire all’assenza della figura materna? E due madri possono far ritenere superflua la presenza della figura maschile? Talvolta, e per le più svariate ragioni, può accadere che un genitore debba farsi carico interamente della crescita del figlio, magari con l’aiuto di un nuovo compagno. Queste sono le necessità della vita! Ma ben diverso è programmare fin dall’inizio una situazione del genere, così pregiudizievole per gli interessi del piccolo, mediante il ricorso o all’adozione o alla fecondazione assistita. Ove ciò accada, i diritti del fanciullo sono inevitabilmente compromessi. Poco convincente appare, d’altronde, l’argomentazione di chi ritiene che, rispetto all’alternativa di rimanere in orfanotrofio, sarebbe comunque preferibile l’adozione da parte di coppie omosessuali. Infatti, se da un lato va rammentato che l’adozione, come istituto giuridico, non mira a garantire un’alternativa “qual che sia” alla permanenza del minore in collegio, ma piuttosto una famiglia “come si deve” a chi non ce l’ha, dall’altro non si può non rilevare come il problema avvertito nei Paesi occidentali non consista tanto nella eccedenza di bambini adottabili rispetto alle richieste di adozione (anzi, è vero il contrario, come è dimostrato dal fatto che per soddisfare almeno una parte delle richieste molti Paesi hanno dovuto aprire all’adozione internazionale) quanto nella estrema farraginosità dell’iter burocratico. Se dunque la preoccupazione fosse veramente quella di offrire a tutti i bambini, nei limiti del possibile, una valida alternativa al collegio, basterebbe più semplicemente snellire le procedure di adozione. Ma le motivazioni soggiacenti all’adozione da parte di coppie omosessuali sono ben altre e di tipo squisitamente ideologico: delegittimare la famiglia tradizionale, quale struttura educativa e comunità di affetti irriducibilmente eterosessuale, intaccandone i fondamenti giuridici e naturali.

È presente 1 commento

Unknown ha detto...

Questo è uno dei saggi più tendenziosi e carichi di pregiudizio che io abbia letto sull'argomento. Gli studi sull'omogenitorialità si accumulano da decenni e sono ormai moltissimi (non "pochi"). Il loro esito viene considerato più che rassicurante non dai "sostenitori dell'omosessualità" ma dagli studiosi che li hanno elaborati. Parlano di bambini e ragazzi seguiti con attenzione, amore e rispetto, ben inseriti nel contesto famigliare e sociale, felici e fieri delle loro famiglie. Alcune ricerche mostrano dati addirittura migliori di quelli relativi alle coppie etero. "Hanno più probabilità di prendere in considerazione relazioni omosessuali": sfido: ne hanno in casa un esempio vivente e positivo! Tuttavia lei tace che, crescendo, questi ragazzi e ragazze si orientano verso l'eterosessualità in proporzioni che rispecchiano fedelmente quelle presenti nella popolazione generale. Quanto alla stabilità delle coppie lesbiche e gay con figli, non si vede perché debba essere calcolata in base a quella di tutti gli altri omosessuali, e non di tutte le altre coppie con figli. Ma non credo che lei ne conosca, di "famiglie arcobaleno". Non parlerebbe così di una realtà d'amore vista coi suoi occhi.

Tommaso Giartosio

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