Francesco comunicava usando tutti i mezzi a disposizione. Si serviva della voce, certo, ma non solo, al punto che, dice Tommaso da Celano, aveva fatto di tutto il suo corpo una lingua.
di Felice Accrocca
Sanfrancescopatronoditalia - Non disdegnava peraltro il ‘gesto’, che utilizzava in modo effi cace: una volta, ad esempio, tenne a Chiara e alle sue sorelle una predica silenziosa utilizzando della cenere, di cui si cosparse il capo e di cui si circondò. Seguendo il Maestro, si servì pure di parabole e similitudini, che gli consentivano di essere maggiormente incisivo. Per mettere i suoi in guardia dall’orgoglio che poteva nascere dalla consapevolezza di aver scelto, con la vocazione francescana, la parte migliore, un orgoglio che portava a dimenticare gli impegni che a quella scelta erano connessi e spingeva invece a trarne possibili vantaggi, Francesco utilizzò – forse in più d’una occasione – una similitudine ben nota a tutta la tradizione biblica, quello delle pecore e del pastore. Giordano da Giano testimonia che tale insegnamento fu motivato dalla notizia del martirio dei primi frati (in Marocco, nel gennaio 1220) e della leggenda che, in seguito a ciò, era stata scritta. Francesco, “sentendo che in essa si facevano le lodi di lui e vedendo che i frati si gloriavano del martirio di quelli, [...] rifi utò tale leggenda e ne proibì la lettura dicendo: «Ognuno si glori del suo proprio martirio e non di quello degli altri»”. Quando voleva, dunque, sapeva essere secco e tagliente, e le immagini utilizzate risultavano senza dubbio effi caci. Né meno secco – ed effi cace – si rivela il racconto del morituro impenitente, posto in chiusura della cosiddetta Lettera ai fedeli, che ci consente di riascoltare la voce del predicatore Francesco, di comprendere il modo in cui egli incitava le folle a conversione, a lottare contro i nemici di sempre, il mondo, il diavolo, la carne, per sottomettersi al “giogo del servizio” e servire nella libertà l’Altissimo Signore: “Il corpo lo mangiano i vermi”, concludeva; “e così quell’uomo perde il corpo e l’anima in questa breve vita e va all’inferno, dove sarà tormentato senza fi ne”. Un grande comunicatore, Francesco, capace di essere chiaro fi no all’eccesso. Come il suo Maestro, in fondo. Non aveva anche Gesù raccontato la parabola di un ricco stolto (Lc 12, 16-21)? E non aveva inveito contro scribi e farisei, denunciando il loro falso perbenismo, pronunciando per ben sette, contro di loro, il duro monito “Guai a voi”, come leggiamo nel capitolo 23 del Vangelo di Matteo? Un Francesco – passi l’espressione – più maschio di quello che tanta arte ci ha abituati a vedere; un Santo vero, non un ‘santino’ di quelli che, messi sui muri, fi niscono per diventare innocui e non inquietar più nessuno. Un uomo di Dio, che nel comunicare non cerca di compiacere l’uditorio, ma – medico capace – affonda il bisturi nella piaga purulenta. Perché cercava non il proprio interesse, ma quello di Cristo
di Felice Accrocca
Sanfrancescopatronoditalia - Non disdegnava peraltro il ‘gesto’, che utilizzava in modo effi cace: una volta, ad esempio, tenne a Chiara e alle sue sorelle una predica silenziosa utilizzando della cenere, di cui si cosparse il capo e di cui si circondò. Seguendo il Maestro, si servì pure di parabole e similitudini, che gli consentivano di essere maggiormente incisivo. Per mettere i suoi in guardia dall’orgoglio che poteva nascere dalla consapevolezza di aver scelto, con la vocazione francescana, la parte migliore, un orgoglio che portava a dimenticare gli impegni che a quella scelta erano connessi e spingeva invece a trarne possibili vantaggi, Francesco utilizzò – forse in più d’una occasione – una similitudine ben nota a tutta la tradizione biblica, quello delle pecore e del pastore. Giordano da Giano testimonia che tale insegnamento fu motivato dalla notizia del martirio dei primi frati (in Marocco, nel gennaio 1220) e della leggenda che, in seguito a ciò, era stata scritta. Francesco, “sentendo che in essa si facevano le lodi di lui e vedendo che i frati si gloriavano del martirio di quelli, [...] rifi utò tale leggenda e ne proibì la lettura dicendo: «Ognuno si glori del suo proprio martirio e non di quello degli altri»”. Quando voleva, dunque, sapeva essere secco e tagliente, e le immagini utilizzate risultavano senza dubbio effi caci. Né meno secco – ed effi cace – si rivela il racconto del morituro impenitente, posto in chiusura della cosiddetta Lettera ai fedeli, che ci consente di riascoltare la voce del predicatore Francesco, di comprendere il modo in cui egli incitava le folle a conversione, a lottare contro i nemici di sempre, il mondo, il diavolo, la carne, per sottomettersi al “giogo del servizio” e servire nella libertà l’Altissimo Signore: “Il corpo lo mangiano i vermi”, concludeva; “e così quell’uomo perde il corpo e l’anima in questa breve vita e va all’inferno, dove sarà tormentato senza fi ne”. Un grande comunicatore, Francesco, capace di essere chiaro fi no all’eccesso. Come il suo Maestro, in fondo. Non aveva anche Gesù raccontato la parabola di un ricco stolto (Lc 12, 16-21)? E non aveva inveito contro scribi e farisei, denunciando il loro falso perbenismo, pronunciando per ben sette, contro di loro, il duro monito “Guai a voi”, come leggiamo nel capitolo 23 del Vangelo di Matteo? Un Francesco – passi l’espressione – più maschio di quello che tanta arte ci ha abituati a vedere; un Santo vero, non un ‘santino’ di quelli che, messi sui muri, fi niscono per diventare innocui e non inquietar più nessuno. Un uomo di Dio, che nel comunicare non cerca di compiacere l’uditorio, ma – medico capace – affonda il bisturi nella piaga purulenta. Perché cercava non il proprio interesse, ma quello di Cristo
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