lunedì, settembre 27, 2010
Il nostro Bartolo Salone ci fa riflettere sul matrimonio cristiano e su quello che succederà dopo la morte tra marito e moglie prendendo spunto dalla lieta storia dei coniugi Vianello

Pochi mesi dopo la morte del marito, anche Sandra Mondaini è tornata alla casa del Padre. Scompare così una delle coppie più amate dagli italiani. Preziosa la testimonianza d’amore che ci hanno dato: un amore durato un’intera esistenza, che solo la morte ha potuto interrompere. Un amore sbocciato sul set da lavoro e cresciuto in un mondo, quello dello spettacolo, così ostile ai legami seri e duraturi. “Omnia vincit amor”: Sandra e Raimondo ci hanno dimostrato che non è impossibile stare insieme tutta la vita, amandosi realmente, nella buona come nella cattiva sorte. E’ forse per questo che la morte così vicina dei due è stata da taluno interpretata come un segno del destino: uniti così profondamente in terra, non avrebbero potuto non esserlo in Cielo. Secondo Alba Parietti, addirittura, “simbiotici” come erano, l’uno non avrebbe potuto più vivere senza l’altro, nel vero senso della parola. Era quindi normale, in questa prospettiva, che la Mondaini non sopravvivesse alla scomparsa del marito. 


Pensiero romantico, suggestivo se vogliamo, ma chissà se risponde a verità: la Mondaini, da tempo affetta da un tumore ormai giunto alla fase terminale, è evidentemente morta a causa della sua malattia e non per il dolore della perdita del suo Raimondo, che pure deve averle provocato non poca sofferenza.
 

Sia come sia, una cosa va comunque detta: l’ideale romantico dell’eterno amore (uniti in vita, uniti per sempre, anche dopo la morte), al di là delle apparenze e – ammettiamolo pure – della retorica, è qualcosa di assolutamente estraneo alla visione cristiana dell’amore. Può sembrare strano, ma è così.
 

L’amore fra l’uomo e la donna, che nella sua forma più matura e perfetta si esprime nell’unione coniugale, è nella concezione cristiana un amore sì esclusivo, sì fedele, sì indissolubile, ma niente affatto eterno. Esso, infatti, cessa alla morte di uno dei due coniugi (“…finché morte non vi separi” recita la formula liturgica). Né sarebbe legittimo pensare che l’unione tra i due coniugi si ricostituisca allorché entrambi passino a miglior vita: i coniugi potranno anche incontrarsi in Paradiso, qualora entrambi condividano la medesima sorte beata, ma di sicuro non come marito e moglie. Sul punto Cristo è chiaro: “I figli di questo mondo prendono moglie e marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro e della risurrezione dei morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20, 34-36).
Nell’aldilà, tutte le categorie terrene sono destinate ad essere superate, ivi compresa la categoria della sessualità (saremo “uguali agli angeli” del cielo e gli angeli non hanno sesso) e del matrimonio. Anche la fede sparirà e l’unica cosa che rimarrà, come ci ricorda san Paolo, sarà la Carità, ossia l’amore di Dio, dinanzi al quale tutti ci troveremo nella medesima posizione di figli e fratelli. Realizzata la “grande”comunione tra i santi di Dio, infatti, non avrà più senso la “piccola” comunione, importante sì (almeno finché saremo in questo mondo), ma in ogni caso limitata e imperfetta, creata dal matrimonio.

E’ per questo che il Cristianesimo, lungi dal proporre il matrimonio come vocazione esclusiva, ha sempre tenuto in grande considerazione la scelta della verginità per il regno dei cieli. I consacrati, offrendo a Dio il dono della propria castità mediante la volontaria rinuncia alle nozze, testimoniano appunto questa tensione verso l’eternità, in cui, come abbiamo visto, non ci saranno più né matrimoni né famiglie, tutti appartenendo ad un’unica grande famiglia, la famiglia dei santi di Dio. E’ la stessa fede nella vita eterna e nella resurrezione dei morti a richiedere il riconoscimento dello stato di vita consacrata accanto a quello matrimoniale. Non è un caso, d’altronde, che di vergini consacrate e di “eunuchi per il regno di Dio” (Gesù stesso utilizza nel Vangelo questa espressione per indicare la scelta della piena consacrazione a Dio nel celibato) la storia della Chiesa sia ricca fin dai primordi, ancor prima che nascessero i primi ordini religiosi. Sembrerebbe che la Chiesa possa fare a meno degli ordini religiosi, ma non di uomini e donne che, pur vivendo nel mondo, si consacrano a Dio nella castità perfetta. Singolare è invece la lotta serrata che uno dei più importanti padri della Riforma protestante, Martin Lutero, condusse contro la scelta della consacrazione religiosa (ricordiamo brevemente che una delle iniziative propagandistiche più eclatanti messe in atto dal riformatore dopo la rottura della comunione con la Chiesa di Roma fu quella di prendere in moglie una suora, lui che era stato frate agostiniano, proprio per sottolineare come nella sua visione della religione non ci fosse posto per la vita consacrata). Eppure, è un dato storico inconfutabile (a meno che non vogliamo dar credito alle fantasiose congetture di qualche scrittore o regista moderno) il celibato di Gesù, ad imitazione del quale molti, anche tra i suoi primi discepoli (uno di questi è proprio san Paolo), scelsero il medesimo stato di vita. Che da questo punto di vista i vari cristianesimi “riformati” siano rimasti più fedeli allo spirito e alla lettera dei Vangeli (nei quali non mancano espliciti riferimenti alla scelta celibataria o alla verginità per il regno dei cieli) nonché alla prassi seguita dalle prime comunità cristiane è tutto da dimostrare. Certo è che il cattolicesimo, nel tenere insieme matrimonio e consacrazione, mostra al suo interno un pluralismo sconosciuto alla stragrande maggioranza delle altre confessioni cristiane.

Ma allora, se è vero che il matrimonio è una realtà in via di superamento nella prospettiva dell’eternità, perché è tenuto in tale importanza dalla Chiesa cattolica, la quale invero non ha mai lesinato condanne a quei movimenti eterodossi (vedi ad esempio il catarismo) che a più riprese nella storia hanno sostenuto l’abolizione dell’istituto matrimoniale? Il fatto è che per la Chiesa il matrimonio non è un semplice accordo tra uomini, un mero progetto di vita dal carattere tutto umano. Il matrimonio, nella visione cristiano-cattolica, è piuttosto una vocazione e al contempo un sacramento. In quanto vocazione è risposta ad un ben preciso progetto di Dio, che attraverso l’amore di un uomo e di una donna concreti chiama altri suoi figli all’esistenza; in quanto sacramento, il matrimonio è “segno” dell’amore che Dio ha per gli uomini. Proprio perché “segno” di una realtà “altra” che supera gli orizzonti umani, il matrimonio, prima ancora che alla procreazione quale fine biologico, è ordinato al fine spirituale di conoscere e amare Dio in maniera migliore. L’amore di Dio, d’altra parte, secondo l’insegnamento di Cristo, non è amore disincarnato, meramente spirituale, in quanto passa attraverso l’amore del prossimo. Nel matrimonio i coniugi sono chiamati quindi a fare esperienza dell’amore di Dio, partendo proprio dall’amore reciproco e dall’amore per i figli. L’amore che i coniugi si offrono reciprocamente è mezzo per “accedere” a Dio, per sperimentare il suo di amore. Nella misura in cui l’amore uomo-donna può aiutare a conoscere ed amare Dio in maniera migliore, esso va senz’altro vissuto e sperimentato nella vocazione matrimoniale. Ma se per qualcuno non dovesse essere così, perché da Dio stesso chiamato a conoscerlo e ad amarlo per altre vie che Lui solo conosce, allora meglio non sposarsi.

In ogni caso, raggiunto il fine per cui l’uomo è stato creato, vale a dire la salvezza eterna, il mezzo stesso attraverso cui vi si è giunti non ha più importanza. Nel cristianesimo, dunque, non esiste l’amore eterno: piuttosto l’amore umano, ivi compreso l’amore coniugale, è per l’eternità.

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