giovedì, gennaio 06, 2011
dal nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

“Ma, allora, i re magi siamo noi!” esclama orgoglioso un emigrato italiano appena terminata la Messa. Illuminato come da una rivelazione improvvisa, sta traducendo l’omelia di oggi, festa dell’Epifania, in termini quotidiani, spiccioli, con personaggi nostrani. Avevo spiegato poco prima per filo e per segno la dinamica dei re magi: venire da molto lontano, trovarsi perduto, condividere ciò che si ha di più caro, di tipico o di prezioso, mettersi in ginocchio nella terra raggiunta, ammirare la vita in qualcosa di povero e di essenziale incontrato. Infine, essere un re nel proprio paese, ma, strada facendo, diventare un nomade qualsiasi...

Sì, è vero, mi dico, i nostri emigranti italiani all’estero sono dei re magi in carne e ossa per questa terra straniera. Travestiti, tuttavia, da pastori. Quante umiliazioni! Vita difficile, tormentata agli inizi, come ricordava ancora l’altro giorno Antonio: “Sono cinquant’anni che sto qui, ma i primi tempi erano veramente duri, tutt’altra cosa rispetto ad adesso...” Deve essere stato arduo vivere qui, visto che tuttora non è facile campare in terra inglese per i tanti giovani italiani che vi capitano. E in giro per il mondo i nostri erano chiamati in tanti modi: ritals, macaroni, cìncali, dongo, negri, mafiosi... ma sempre con lo stesso disprezzo.

“È stata la nostra guerra di resistenza!” commenta Umberto, sulla settantina, ormai con un mezzo sorriso da vecchio combattente. “Quando incontri un uomo lo giudichi dai vestiti, quando te ne separi lo giudichi dal cuore!” recita qui un vecchio proverbio. All’addio ad ogni emigrante, infatti, sono tanti i volti inglesi che compaiono d’incanto in chiesa. I nostri a volte li senti ripetere: «Abbiamo dato quanto di migliore avevamo a questa terra; non ci resta più niente se non un po’ di salute!». La giovinezza, i figli, le energie migliori, una grande laboriosità, delle belle qualità morali, una cinquantina d’anni di vita... Ecco i tesori aperti e condivisi con un popolo sconosciuto. Il paese qui è cresciuto con loro e attraverso di loro: un’opera di formiche che in massa hanno fatto cose prodigiose come dappertutto i nostri emigranti.

Resta, in fondo, per i nostrani re magi, solo la gioia di veder contenti i figli e i nipoti, acclimatati ormai alla nuova terra. E poi questa invidiabile vita fraterna con un’altra gente, con un altro popolo. Sì, una scoperta grande, da venerare come un vero dono di Dio.

“Per me, invece, che vado spesso all’estero, i re magi sono semmai gli altri...”, interviene Paola, soffiando vento contrario. È una giovane dottoressa che viene spesso in Inghilterra per stage o per congressi. L’ascolto, per capire meglio: “Nel mio campo, per esempio, non si condivide nulla. Ognuno tiene per sé le cose, il proprio sapere come un tesoro geloso”. E porta un esempio: in un recente congresso all’estero ha imparato in soli tre giorni moltissime cose nuove, mentre in un altro a Genova tre specialisti giravano attorno agli argomenti quasi non volessero rivelare nulla. “Se chiedi qualcosa a qualche studioso all’estero - subito ti risponde con precisione - ti dà spiegazioni con calma, ti trasmette sapere; da noi, prima ti guardano come per umiliarti, poi cercano di dare qualche risposta generica”.
E allora, tranquilla, mi precisa: “Qui, è vero, sono freddi, ma in caso di bisogno sono presenti e concreti. Un responsabile, che trovavo freddo e distante, in un momento di difficoltà si è offerto lui stesso di prestarmi la carta di credito, cosa impensabile con i miei colleghi italiani! Qui trovo che la gente è più concreta, pratica, ti aiuta sul serio; la nostra invece è calorosa, ma poi...”

Mi sorprendo, allora, nell’accostare le due realtà trovandovi come una strana legge del contrappasso. La vecchia lezione dei nostri emigranti che si spezzavano la schiena per gli altri, e i nostri connazionali di oggi, che in un individualismo sorprendente conservano gelosamente i propri tesori, incapaci di condividere. Chissà, sarà forse una nuova regola d’oro quella di curare ognuno il proprio interesse, chiudersi nel particolarismo, perdere di vista il bene comune, il servizio a una comunità e tenere stretto il proprio tesoro?

Così mi viene da pensare, mentre guardo uscire in stormo dalla chiesa questi nostri italiani, vecchi combattenti ormai dal passo inglese. Hanno sempre capito, in fondo, di non appartenere - come i re magi in cammino - a nessuna terra: né a quella di origine, né a quella di arrivo. E in quest’ora avanzata della vita sentono che la terra promessa, da sempre cercata, è ben lontana e tuttavia prossima... È dove ci si sentirà dire, finalmente, come a dei veri re magi giunti alla grotta: “Welcome!” La parola più rara e più dolce per uno straniero.

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