del nostro collaboratore Bartolo Salone
Qualcuno sostiene che l’epifania, come festa, sarebbe addirittura più importante del Natale, anche se nell’occidente secolarizzato sembra ormai essere diventata la festa della befana. Tra i fedeli, poi, probabilmente pochi sono quelli che ne comprendono ancora il significato. Già la parola stessa “epifania” suona enigmatica, trattandosi di un vocabolo mutuato dalla lingua greca. Non a caso, del resto, le origini di questa festa sono orientali. “Epifania” significa letteralmente “manifestazione”, “rivelazione”: l’epifania è dunque la manifestazione di Dio agli uomini nella persona del suo figlio Gesù. Nel mondo ortodosso, la medesima solennità è meglio conosciuta col nome di “teofania”. La peculiarità di questa festa risiede nel fatto che essa non è legata ad uno specifico episodio della vita di Gesù, che nel suo complesso è a ben vedere rivelazione di Dio Padre (“Chi vede me, vede il Padre”, confida Cristo all’apostolo Filippo), ma esprime un concetto astratto, squisitamente teologico, ossia il mistero di un Dio che si fa uomo, irrompendo nella storia. Dunque, una festa “ideologica”, come taluno l’ha definita, che ci mette davanti al più grande mistero del cristianesimo, quello dell’incarnazione. E’ in fondo lo stesso mistero celebrato nel Natale, solo che, mentre il Natale ci riporta al fatto storico della nascita di Gesù a Betlemme, l’Epifania, conformemente allo spirito contemplativo dell’Oriente, ci introduce immediatamente al Mistero, saltando gli eventi. Da parte sua, la liturgia dell’Occidente cattolico, che è un po’ meno incline all’astrazione, quasi a voler ancorare il senso di questa festa ad un evento storico “tangibile”, il giorno dell’Epifania commemora l’adorazione del Bambinello da parte dei Magi, strani personaggi venuti “da oriente” per rendere omaggio al re dei Giudei.
Nella visita dei Magi la tradizione cristiana da sempre scorge l’universalità della salvezza recata da Cristo, la quale non è limitata ad un popolo, ma si estende all’umanità intera. Se delle promesse antiche era stato destinatario un solo popolo, Israele, del nuovo annuncio di salvezza sono destinatari tutti gli uomini, senza distinzione di razza, cultura, nazione. Se l’ebraismo nasce e si afferma come religione nazionale (conservando fino ad oggi questo carattere), il cristianesimo, al contrario, diverrà una religione “cattolica”, universale per l’appunto.
La verità, infatti, non può essere appannaggio di pochi, ma deve essere conosciuta da tutti, perché solo la verità, quella autentica, rende realmente liberi. E in Cristo ci è rivelata la più importante delle verità, quella da cui dipende tutto il resto: la verità per cui Dio è amore. Questo è il cuore del messaggio cristiano, ciò che differenzia il cristianesimo da ogni altra religione, ivi compresa quella ebraica, nella cui radice il cristianesimo si è pur innestato. Dio, nella prospettiva cristiana, non è semplicemente un Creatore (come per l’ebraismo) o un Grande Architetto che si limita a dare forma e ordine alla materia (secondo l’ideale del deismo illuminista e massonico), e non è neanche solo Giustizia o Provvidenza: Dio è anche tutte queste cose, ma prima di tutto è Amore. Amore puro, sconfinato, sublime, amore passionale, intenso, concreto, amore gratuito, che dà la vita.
Con il cristianesimo la visione di Dio è radicalmente mutata e, di conseguenza, è cambiata la visione dell’uomo. L’uomo non può essere più considerato come un semplice granello di sabbia, sperduto in un angolo oscuro dell’universo o frutto di una mera casualità. Neppure può essere considerato alla stregua di una semplice creatura: in quanto oggetto di un amore tutto speciale, egli è figlio!
L’ebraismo non era arrivato a tanto: nell’Antico Testamento, l’uomo continua ad essere concepito come creatura, anche se in una posizione di superiorità rispetto alle altre, in quanto sola creatura fatta ad “immagine e somiglianza” di Dio. Nel Nuovo Testamento cristiano, invece, l’uomo ci è detto essere “figlio di Dio” e, in quanto tale, ha il sacrosanto diritto di rivolgersi a Dio chiamandolo “Papà”. Dare del “padre” a Dio ai tempi di Gesù (in cui il nome di Dio, per una sorta di timore reverenziale, sovente neppure veniva pronunciato) appariva come una bestemmia, così come è tuttora reputato una bestemmia nell’ambito della religione islamica, che, tra gli innumerevoli “nomi” di Dio (99 per l’esattezza), non conosce quello di “Padre”. Ci accorgiamo, fra l’altro, di quanto “rivoluzionaria” sia la preghiera del “Padre nostro” per la inedita concezione di Dio e dell’uomo che essa sottende.
Ma quanti cristiani oggi pensano a Dio come ad un padre amorevole? Quanti sanno cosa significhi essere figli di Dio? Quanti hanno un autentico rapporto di confidenza filiale con il Signore e quanti invece si accontentano di un rapporto “formale”, basato sull’osservanza di riti e precetti, come quello degli scribi e dei farisei?
Essere figli, a mio avviso, significa sostanzialmente due cose: la prima è che Dio ci ama così come siamo, con tutti i nostri peccati; la seconda è che, proprio perché ci ama, vuole condividere con noi la sua vita divina, portando a perfezione la nostra umanità decaduta, secondo il suo disegno di grazia. Essere figli, come ci ricorda san Paolo, vuol dire inoltre essere eredi e l’eredità che ci attende nei cieli – se riusciremo davvero a vivere da figli di Dio – è la santità e la vita eterna, poiché “in Cristo il Padre ci ha scelti prima della creazione del mondo per trovarci, al suo cospetto, santi e immacolati nell’amore” (Ef 1,4).
Nel rivelarsi, Dio manifesta a noi la nostra vera dignità di uomini e di figli, mostrandoci quello che saremo se rimarremo nel suo amore. La sua Epifania, quindi, è anche la nostra epifania.
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