«Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale.» (Giustino Fortunato, 1904)
Cosa sia con esattezza la ‘questione meridionale’ nessuno può dirlo. Il numero di problematiche nate da errate scelte politiche in vari momenti storici è così elevato che non si riesce a trovare una semplice definizione. E’ invece più facile dire quando inizia la ‘questione’: dal principio, fin dai primi anni della neonata Italia unita. Affronteremo in questo articolo se e come questa questione si è risolta ma è doveroso fare prima alcuni cenni storici.
È l’anno 1860: finisce il Regno delle due Sicilie, che vedeva già annesso il Regno di Napoli, e Cavour presenta al Parlamento il disegno di legge che avrebbe garantito l’annessione delle province del Sud al nuovo Regno d’Italia. Immediata è la difficoltà di unificare gli intenti della neo-popolazione italiana, di creare cooperazione tra le ‘regioni’ d’Italia. Le differenze linguistiche, storiche e culturali non rendono certamente agevole il raggiungimento di una coesione nazionale.
Il problema dello sviluppo tra le diverse zone d’Italia si presenta quindi immediatamente. Un sud la cui impostazione economica si basa quasi esclusivamente sull’agricoltura in grossi feudi e un nord che già ha recepito un certo progresso industriale-agricolo dall’Europa. Rileggendo la storia, è facile trovare la causa del divario tra nord e sud che si protrae fino ai giorni nostri: un errato modello di sviluppo, che portò per esempio la costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto ferroviarie, solo al nord, infrastrutture che furono la base per il successivo sviluppo economico della regione.
A rafforzare l’idea che questa sia stata una scelta sbagliata e di convenienza per il nord vi è anche la valutazione del patrimonio che ogni regno portò alla nascente Italia. Molti storici, ancora oggi, pensano infatti che sia stato perpetrato un ‘furto’ a danno del sud, dato che, da molti indicatori economici, sembra che sia stato proprio quest’ultimo a rifornire maggiormente, di sonante moneta, il nuovo regno. Questa evidente diversità di trattamento non aiutò di certo l’integrazione fra le varie popolazioni.
Per dare un’idea di cosa i cittadini del nord pensavano in merito al meridione, ci affidiamo alle parole dello storico Villari che, nelle sue “Lettere meridionali” scritte nel 1875 al direttore dell’ “Opinione” Giacomo Dina, parlando proprio degli italiani del nord, dice: “Fortunatamente, essi dicono fra sé, non tutta l’Italia è nella condizione in cui sono le province meridionali. Se laggiù il contadino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora per un pezzo nello stato di semi-barbari. Nell’Italia centrale e superiore saremo, come siamo, civili”.
Così, in breve tempo, la questione meridionale divenne un fenomeno, oltre che politico, anche sociale e antropologico. Si instaurò un circolo vizioso che arriva fino ai giorni nostri: al sud cominciarono a nascere il brigantaggio, la mafia e la camorra, mentre il nord cominciò a vedere il sud come la “palla al piede” che impediva lo sviluppo economico e industriale del Paese.
A questo punto sarebbe interessante approfondire ulteriormente lo sviluppo a due velocità lungo tutto il ‘900, ma in fondo il punto che più inquieta e che dovrebbe svegliare le contemporanee generazioni politiche è che le parole di Villari sono, in maniera preoccupante, utilizzabili per riassumere il pensiero di certi leader secessionisti e revisionisti storici che, nostro malgrado, spopolano in tutto il centro-nord e che si fanno portavoce di un sentimento diffuso.
Non credo sia opportuno fossilizzarsi sulla mera analisi storica dell’accaduto in un gioco delle colpe. Come detto prima, la storia ci serve per capire chi siamo, cosa siamo e dove stiamo andando, e proprio leggendola senza amoralità possiamo vedere, oltre tutti i disfattismi che pur verrebbero spontanei, un roseo futuro per questo nostro paese. La forza di volontà che ha animato i nostri padri fondatori vive ancora, ne sono certo, nella gente italiana. Così come ho la certezza che in tanti siamo disposti a lottare e credere che un futuro prospero, fatto di coesione e di rinnovata identità nazionale, sia possibile.
In fondo, sono convinto che proprio a questo serva una così importante e bella celebrazione come quella del 150° anno dall’Unità d’Italia: a riscoprire la nostra cultura, con le sue mille sfaccettature e inflessioni regionali, che è meravigliosa espressione di uno stato e di un popolo che guarda ad un’unica bandiera e canta un solo inno. La memoria di quest’evento si faccia però energia per lavorare ad un futuro davvero diverso. La politica si interessi nuovamente, senza trionfalismi o annunci vuoti, alla questione meridionale. Come molte generazioni di politici hanno fallito nel cercare di rilanciare questa importante parte del paese, così anche questa non faccia lo stesso errore. Ad esempio, cancelli immediatamente questa inutile e malsana idea di un ponte sullo Stretto, specchio per le allodole usato da una politica fatta di annunci e proclami. I politici, e le istituzioni più in generale, abbiano il coraggio di guardare in faccia la realtà e aiutino la gente del meridione con politiche e progetti a lungo termine che siano davvero utili al territorio. Lo Stato immetta fondi, idee, mezzi e risorse concrete, e soprattutto si preoccupi che siano ben gestite. La Banca del Mezzogiorno per esempio si traduca concretamente nel principio che sta dietro al suo nome. Dalla storia possiamo e dobbiamo imparare: l’augurio è che al prossimo anniversario non si parli della questione meridionale come un problema ancora presente ma solo come una delle pagine più brutte, ma ormai passate, della storia d’Italia.
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