Fuga da Bengasi di ong e giornalisti, Gheddafi avanza e l'Onu decide la no fly zone. L'autostrada è un nastro nero tracciato nel deserto. Il senso di marcia verso la Libia non incontra ostacoli, invece quello che dalla Libia porta in Egitto è più trafficato. Neanche troppo, però. Almeno non quanto ti aspetteresti in quelle che possono essere le ultime ore della rivoluzione libica.
PeaceReporter - In un senso o nell'altro. I lealisti di Gheddafi sono alle porte di Bengasi. Mai, dal 17 febbraio, data d'inizio dell'insurrezione (come ricordano adesivi e bandiere sulle macchine che arrivano dalla Libia) la situazione è parsa così frenetica. I ribelli sono in difficoltà: una dietro l'altra hanno perso Ras Lanuf, Brega e Ajdabiyah. Secondo alcune delle mille voci incontrollate di queste ore una colonna dell'esercito libico si prepara a marciare su Bengasi, un'altra su Tobrouk, per tagliare i rifornimenti ai ribelli. "Se cade Bengasi è finita", commenta Muammar, libico da una vita in Italia, di ritorno a Bengasi. "C'è tutta la mia famiglia, non m'interessa la situazione. Devo tornare". La situazione precipita, mentre la comunità internazionale non si decide. "Non capisco perché aspettare tanto...non dico che bisognava attaccare, non lo volevamo neanche noi, ma sostenerci si, riconoscerci politicamente. Sarebbe bastato questo".
Sulla destra, all'improvviso, il sacrario militare italiano di El Alamein. Sembra uno spettro, un monumento di altre guerre, di altre invasioni. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la no-fly zone, la Cina si è astenuta senza porre il veto, la Francia è pronta a intervenire e dovrebbe farlo con Gran Bretagna e Usa. La visita del segretario di Stato Usa Hillary Clinton al Cairo sembra una manovra per incontrare i ribelli. Muammar, come mille altri, si chiede il perché. Difficile dire come mai si sia aspettato tanto e si sia deciso di intervenire proprio quando la situazione militare è favorevole a Gheddafi come mai prima. Probabile che la politica avesse bisogno dell'urgenza per giustificare un intervento che, quando si parla di mondo arabo e petrolio, suona sempre come colonialismo.
Il confine si avvicina. In un caffè lungo la strada una prima macchina di giornalisti. "Stanno andando via tutti, al massimo si fermano a Tobrouk. Bombardano Bengasi...troppo insicuro restare". Racconta un fotografo giapponese, con lui giornalisti portoghesi e irlandesi. Sembra una scena da fine del mondo. "I ribelli sembrano divisi, non si vede più quell'euforia dei primi giorni. Un cooperante arrestato come spia...non ci son sicurezza".
Mancano all'appello alcun colleghi del New York Times. Un ospedale da campo dell'esercito egiziano, un posto di frontiera. Molti militari, poche persone. I controlli sono rapidi, nessun problema a passare. Una lunga strada di cemento, un primo gruppo di migranti subsahariani. Vicino alla moschea, i panni stesi ad asciugare al sole. "Alcuni sono qua dal 17 febbraio, non sanno dove andare", spiega Muammar.
Le guardie di frontiera egiziane sembrano annoiate. Una palazzina dove si vidimavano i passaporti è un immenso dormitorio. Migliaia di persone, ammassate in uno spazio angusto. Altrettanti fuori. Tutti subsahariani, il resto in macchina, targa egiziana. Abbandonano armi e bagagli la Libia. I subsahariani, invece, stanno fermi. Hanno occupato ogni centimetro dello spiazzo, sommerso di rifiuti. Corpi secchi come giunchi, facce d'ebano intagliate nella fame. Un ossimoro rispetto a tutto quello che hanno intorno, sotto gli occhi dei poliziotti egiziani, tra palazzine di quello che è stato un duty free. "Non c'erano più le condizioni per operare", racconta un cooperante francese. "siamo usciti tutti, hanno bombardato anche gli ospedali".
Le notizie si rincorrono frenetiche. Emergency, con il chirurgo Marco Garatti e il logista Antonio Molinari, cerca un modo per rendersi utili alla popolazione. Il problema è che in questo momento non c'è modo di avere alcuna garanzia, anche il Governo provvisorio di Bengasi è in difficoltà e lo raccontano diviso. Le due propagande si sfidano. Muammar è perplesso. "Non capisco: dicono di aver abbattuto quattro caccia di Gheddafi e che uno dei nostri ha colpito il suo quartier generale a Tripoli, forse è morto Ghamis, il figlio del Colonnello". I giornalisti presenti, invece, raccontano di una disfatta. "Ascoltano solo la tv di stato del Colonnello", risponde Abu Salam, architetto prestato alla resistenza, ma non sembra molto convinto neanche lui.
La sensazione è che, nelle prossime ore, si deciderà tutto. L'intervento internazionale, a questo punto, è imminente, magari all'alba di domani. Oggi il Colonnello minaccia tutti e bombarda ancora Bengasi e Misurata, dove i ribelli resistono. Si è atteso troppo? Presto per dirlo, soprattutto alle migliaia di persone accampate alla frontiera, dove potrebbe esplodere una crisi umanitaria se la situazione militare precipita.
Christian Elia
PeaceReporter - In un senso o nell'altro. I lealisti di Gheddafi sono alle porte di Bengasi. Mai, dal 17 febbraio, data d'inizio dell'insurrezione (come ricordano adesivi e bandiere sulle macchine che arrivano dalla Libia) la situazione è parsa così frenetica. I ribelli sono in difficoltà: una dietro l'altra hanno perso Ras Lanuf, Brega e Ajdabiyah. Secondo alcune delle mille voci incontrollate di queste ore una colonna dell'esercito libico si prepara a marciare su Bengasi, un'altra su Tobrouk, per tagliare i rifornimenti ai ribelli. "Se cade Bengasi è finita", commenta Muammar, libico da una vita in Italia, di ritorno a Bengasi. "C'è tutta la mia famiglia, non m'interessa la situazione. Devo tornare". La situazione precipita, mentre la comunità internazionale non si decide. "Non capisco perché aspettare tanto...non dico che bisognava attaccare, non lo volevamo neanche noi, ma sostenerci si, riconoscerci politicamente. Sarebbe bastato questo".
Sulla destra, all'improvviso, il sacrario militare italiano di El Alamein. Sembra uno spettro, un monumento di altre guerre, di altre invasioni. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la no-fly zone, la Cina si è astenuta senza porre il veto, la Francia è pronta a intervenire e dovrebbe farlo con Gran Bretagna e Usa. La visita del segretario di Stato Usa Hillary Clinton al Cairo sembra una manovra per incontrare i ribelli. Muammar, come mille altri, si chiede il perché. Difficile dire come mai si sia aspettato tanto e si sia deciso di intervenire proprio quando la situazione militare è favorevole a Gheddafi come mai prima. Probabile che la politica avesse bisogno dell'urgenza per giustificare un intervento che, quando si parla di mondo arabo e petrolio, suona sempre come colonialismo.
Il confine si avvicina. In un caffè lungo la strada una prima macchina di giornalisti. "Stanno andando via tutti, al massimo si fermano a Tobrouk. Bombardano Bengasi...troppo insicuro restare". Racconta un fotografo giapponese, con lui giornalisti portoghesi e irlandesi. Sembra una scena da fine del mondo. "I ribelli sembrano divisi, non si vede più quell'euforia dei primi giorni. Un cooperante arrestato come spia...non ci son sicurezza".
Mancano all'appello alcun colleghi del New York Times. Un ospedale da campo dell'esercito egiziano, un posto di frontiera. Molti militari, poche persone. I controlli sono rapidi, nessun problema a passare. Una lunga strada di cemento, un primo gruppo di migranti subsahariani. Vicino alla moschea, i panni stesi ad asciugare al sole. "Alcuni sono qua dal 17 febbraio, non sanno dove andare", spiega Muammar.
Le guardie di frontiera egiziane sembrano annoiate. Una palazzina dove si vidimavano i passaporti è un immenso dormitorio. Migliaia di persone, ammassate in uno spazio angusto. Altrettanti fuori. Tutti subsahariani, il resto in macchina, targa egiziana. Abbandonano armi e bagagli la Libia. I subsahariani, invece, stanno fermi. Hanno occupato ogni centimetro dello spiazzo, sommerso di rifiuti. Corpi secchi come giunchi, facce d'ebano intagliate nella fame. Un ossimoro rispetto a tutto quello che hanno intorno, sotto gli occhi dei poliziotti egiziani, tra palazzine di quello che è stato un duty free. "Non c'erano più le condizioni per operare", racconta un cooperante francese. "siamo usciti tutti, hanno bombardato anche gli ospedali".
Le notizie si rincorrono frenetiche. Emergency, con il chirurgo Marco Garatti e il logista Antonio Molinari, cerca un modo per rendersi utili alla popolazione. Il problema è che in questo momento non c'è modo di avere alcuna garanzia, anche il Governo provvisorio di Bengasi è in difficoltà e lo raccontano diviso. Le due propagande si sfidano. Muammar è perplesso. "Non capisco: dicono di aver abbattuto quattro caccia di Gheddafi e che uno dei nostri ha colpito il suo quartier generale a Tripoli, forse è morto Ghamis, il figlio del Colonnello". I giornalisti presenti, invece, raccontano di una disfatta. "Ascoltano solo la tv di stato del Colonnello", risponde Abu Salam, architetto prestato alla resistenza, ma non sembra molto convinto neanche lui.
La sensazione è che, nelle prossime ore, si deciderà tutto. L'intervento internazionale, a questo punto, è imminente, magari all'alba di domani. Oggi il Colonnello minaccia tutti e bombarda ancora Bengasi e Misurata, dove i ribelli resistono. Si è atteso troppo? Presto per dirlo, soprattutto alle migliaia di persone accampate alla frontiera, dove potrebbe esplodere una crisi umanitaria se la situazione militare precipita.
Christian Elia
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