Il mondo delle attività organizzate della mafia è considerato un mondo maschilista, come pure la società dalla quale hanno avuto origine. Eppure il ruolo delle donne in queste attività, così come nella lotta contro di esse, è invece essenziale e centrale.
Nonostante alcuni collaboratori di giustizia parlino di attività monosessuali, ci sono testimonianze che documentano che sono state molte le donne che hanno assunto il comando in assenza dei “capi”. Già nel processo alla mafia delle Madonie del 1927-1928 troviamo sette donne imputate per riscossioni di pizzi, assistenza ai latitanti e custodia del denaro, sino al più recente arresto di Maria Filippa Messina, giovane moglie di Nino Cinturino, arrestata nel 1995 a Calatabiano, sospettata di aver preso la guida della famiglia dopo l’arresto del marito. È accusata di aver ingaggiato un killer per vendicare l’omicidio di un mafioso della cosca e in carcere le è stato notificato un altro ordine di custodia cautelare per i delitti durante una guerra tra la cosca catanese di Turi Cappello e il suo alleato Nino Cinturino e quella dei Laudani tra il ‘90 e il ‘95.
Tra gli arrestati anche altre due donne.
La storia delle donne nella mafia ha diverse sfumature: ci sono donne nate in famiglie mafiose o spose di mafiosi che raffigurano un modello di “compagne fedeli” e di grande religiosità; altre donne invece hanno un ruolo attivo nelle organizzazioni mafiose e diventano delle vere e proprie “madrine”, altre ancora si limitano a collaborare, seppur marginalmente, facendo ad esempio da prestanome.
Multiforme è anche l’approccio delle donne di fronte al pentitismo dei familiari: donne che accettano che i congiunti collaborino con la giustizia e donne che invece prendono le distanze da essi anche in forme eclatanti (la fedeltà assoluta diventa più forte dell’amore di una madre per i figli!). Uno degli esempi più drammatici ci è dato da Giovanna Cannova, la cui figlia Rita Atria, suicidatasi a 18 anni due giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, con la quale aveva instaurato un rapporto filiale e di collaborazione, non partecipa al funerale e profana la tomba della figlia per portarla nella tomba della famiglia Atria. Altro caso agghiacciante è quello di Angela Russo, che minaccia di morte il proprio figlio pentito. Altre madri non si sono limatate a questo ma addirittura hanno collaborato con i sicari per “eliminare” quei figli che avevano deciso di collaborare con la giustizia.
Di donne invece che hanno deciso di collaborare con la giustizia ci sono tantissimi casi già dagli anni ‘60, come Serafina Battaglia, e arrivano fino ai nostri giorni. In alcuni casi le donne collaborano solo dopo un arresto. Non si può parlare di “pentite” nella maggior parte dei casi, in cui a collaborare sono donne vedove, orfane, madri cui hanno ucciso i figli, eventi che hanno aiutato queste donne a ribellarsi alla mafia di cui, comunque, avevano accettato le regole. Altre donne invece hanno deciso spontaneamente di rompere il muro di omertà con tutte le conseguenze di questa scelta coraggiosa.
A queste donne è destinato l’isolamento e la difficile vita di chi va contro un sistema che viola tutti i diritti dell’essere umano. Come per Michela Buscemi, i cui fratelli sono stati uccisi per mano mafiosa, e che al maxi-processo dell’’85-’86, in cui si costituì parte civile, fu minacciata di avere “un morto in famiglia” se avesse proseguito il processo. Se è vero che collaborare con la giustizia è la strada più giusta, è vero anche che andare fino in fondo è difficile. Alcune, tuttavia, ci sono riuscite.
Nell’antimafia il ruolo delle donne è stato fondamentale. Se guardiamo indietro, le vediamo già prendere parte ai movimenti antimafia contadini, dai fasci siciliani fino alle lotte negli anni ‘40-‘50, con un ruolo attivo e di primo piano. Oggi il movimento antimafia poggia la sua esistenza su associazioni e volontariato, che hanno tratto la loro origine soprattutto da delitti efferati. Già negli anni ‘80 era attiva l’associazione “Donne siciliane per la lotta contro la mafia”, il cui primo presidente fu Giovanna Terranova, vedova di un magistrato, mentre Anna Puglisi ne fu una delle fondatrici (presto potrete leggere l’intervista ad Anna Puglisi sulle pagine de La Perfetta Letizia). Quest’associazione ha aiutato tante donne vittime della mafia proprio ad uscire dall’isolamento e andare fino in fondo nella scelta di rompere il guscio di omertà e di paura che spesso vince sulla giustizia.
Nonostante alcuni collaboratori di giustizia parlino di attività monosessuali, ci sono testimonianze che documentano che sono state molte le donne che hanno assunto il comando in assenza dei “capi”. Già nel processo alla mafia delle Madonie del 1927-1928 troviamo sette donne imputate per riscossioni di pizzi, assistenza ai latitanti e custodia del denaro, sino al più recente arresto di Maria Filippa Messina, giovane moglie di Nino Cinturino, arrestata nel 1995 a Calatabiano, sospettata di aver preso la guida della famiglia dopo l’arresto del marito. È accusata di aver ingaggiato un killer per vendicare l’omicidio di un mafioso della cosca e in carcere le è stato notificato un altro ordine di custodia cautelare per i delitti durante una guerra tra la cosca catanese di Turi Cappello e il suo alleato Nino Cinturino e quella dei Laudani tra il ‘90 e il ‘95.
Tra gli arrestati anche altre due donne.
La storia delle donne nella mafia ha diverse sfumature: ci sono donne nate in famiglie mafiose o spose di mafiosi che raffigurano un modello di “compagne fedeli” e di grande religiosità; altre donne invece hanno un ruolo attivo nelle organizzazioni mafiose e diventano delle vere e proprie “madrine”, altre ancora si limitano a collaborare, seppur marginalmente, facendo ad esempio da prestanome.
Multiforme è anche l’approccio delle donne di fronte al pentitismo dei familiari: donne che accettano che i congiunti collaborino con la giustizia e donne che invece prendono le distanze da essi anche in forme eclatanti (la fedeltà assoluta diventa più forte dell’amore di una madre per i figli!). Uno degli esempi più drammatici ci è dato da Giovanna Cannova, la cui figlia Rita Atria, suicidatasi a 18 anni due giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, con la quale aveva instaurato un rapporto filiale e di collaborazione, non partecipa al funerale e profana la tomba della figlia per portarla nella tomba della famiglia Atria. Altro caso agghiacciante è quello di Angela Russo, che minaccia di morte il proprio figlio pentito. Altre madri non si sono limatate a questo ma addirittura hanno collaborato con i sicari per “eliminare” quei figli che avevano deciso di collaborare con la giustizia.
Di donne invece che hanno deciso di collaborare con la giustizia ci sono tantissimi casi già dagli anni ‘60, come Serafina Battaglia, e arrivano fino ai nostri giorni. In alcuni casi le donne collaborano solo dopo un arresto. Non si può parlare di “pentite” nella maggior parte dei casi, in cui a collaborare sono donne vedove, orfane, madri cui hanno ucciso i figli, eventi che hanno aiutato queste donne a ribellarsi alla mafia di cui, comunque, avevano accettato le regole. Altre donne invece hanno deciso spontaneamente di rompere il muro di omertà con tutte le conseguenze di questa scelta coraggiosa.
A queste donne è destinato l’isolamento e la difficile vita di chi va contro un sistema che viola tutti i diritti dell’essere umano. Come per Michela Buscemi, i cui fratelli sono stati uccisi per mano mafiosa, e che al maxi-processo dell’’85-’86, in cui si costituì parte civile, fu minacciata di avere “un morto in famiglia” se avesse proseguito il processo. Se è vero che collaborare con la giustizia è la strada più giusta, è vero anche che andare fino in fondo è difficile. Alcune, tuttavia, ci sono riuscite.
Nell’antimafia il ruolo delle donne è stato fondamentale. Se guardiamo indietro, le vediamo già prendere parte ai movimenti antimafia contadini, dai fasci siciliani fino alle lotte negli anni ‘40-‘50, con un ruolo attivo e di primo piano. Oggi il movimento antimafia poggia la sua esistenza su associazioni e volontariato, che hanno tratto la loro origine soprattutto da delitti efferati. Già negli anni ‘80 era attiva l’associazione “Donne siciliane per la lotta contro la mafia”, il cui primo presidente fu Giovanna Terranova, vedova di un magistrato, mentre Anna Puglisi ne fu una delle fondatrici (presto potrete leggere l’intervista ad Anna Puglisi sulle pagine de La Perfetta Letizia). Quest’associazione ha aiutato tante donne vittime della mafia proprio ad uscire dall’isolamento e andare fino in fondo nella scelta di rompere il guscio di omertà e di paura che spesso vince sulla giustizia.
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