In queste ore si stanno accumulando titoli su titoli, nei quali si evidenzia la pressione di Greenpeace rivolta a Facebook, a cui si chiede di “essere più verde”, di impiegare energie rinnovabili e, possibilmente, di diventare leader del settore entro il “Giorno della Terra”, ossia il 22 aprile prossimo.
Nbtimes - Certamente la potenza di calcolo e la connettività di cui ha bisogno una struttura come Facebook, oggi occupata da quasi 600 milioni di utenti, i quali caricano sui suoi server 100 milioni di foto al giorno, non è trascurabile. Per alimentarla occorre una quantità di energia notevole e Facebook, in prima battuta, non ha potuto che comprarla sul mercato, prescindendo dalle metodologie con cui tale energia viene prodotta: essendo logici, nessuno, trovandosi a decidere in seno al social network, avrebbe potuto dire “come è prodotta l’energia che mi vendi? Con il carbone? Allora non la compro”.
Appare alquanto strano che Greenpeace affermi di voler “sensibilizzare l’opinione pubblica sul silenzio di una delle più importanti società nel panorama Web odierno in merito alle proprie decisioni sulle tematiche ambientali”: sembrerebbe quasi non aver letto con attenzione i dettagli dell’iniziativa Open Compute Project, nella quale vi sono chiare indicazioni dell’intenzione di voler procedere esattamente in quella direzione. Il che è francamente difficile poterlo definire “silenzio”.
Inoltre, altrettanto difficilmente – se tutto questo non fosse reale – si scomoderebbero a parlarne realtà più che autorevoli come Technology Review, la rivista edita dal Massachusetts Institute of Technology, nella quale è illustrato con rigore l’intero scenario a cui si rivolge l’iniziativa del social network e le sfide che questo comporta, tenendo presente che la trasformazione da semplice consumatore di energia a entità quasi autonoma o, comunque, “verde”, per un sistema complesso ed esteso come Facebook non è operazione possibile a svolgersi nell’arco di qualche settimana.
L’iniziativa, infatti, è talmente di rilievo da aver fatto domandare ad alcuni osservatori se gli schemi sui quali si fonda non possano essere adottati anche da altre realtà in cui il fabbisogno energetico si attesti su valori simili.
Il nuovo data center che Facebook sta realizzando, per citare qualche numero – peraltro evincibile senza fatica sin dalla Home Page del progetto – comporta una riduzione del 38 per cento rispetto alla media dei consumi, con un PUE pari a 1,07 (il valore puramente ideale è 1), quindi ancora migliore del molto più applaudito data center Merlin di CapGemini, il cui PUE è “solo” pari a 1,08.
Tali valori, realmente degni di ogni rispetto, si possono ottenere con una serie di interventi di carattere sia progettistico che architetturale. Ne sono un esempio gli alimentatori custom a 277 Volt, che consentono di sfruttare direttamente una fase e il neutro della tensione di rete trifase che, negli Stati Uniti, è a 480 Volt (a differenza dell’Italia, dove essa è a 380 Volt e l’uso di una fase e del neutro consente di ricavare 220 Volt).
Altrettanto viene fatto per i sistemi di raffreddamento, attraverso un orientamento intelligente degli edifici nei quali diventa così possibile canalizzare naturalmente l’aria esterna e sfruttarla per raffreddare, come pure il raffreddamento realizzato mediante evaporazione anziché con normali impianti di condizionamento.
L’iniziativa di Greenpeace, dunque, parrebbe avere più il sapore di una leva mediatica che quello di una concreta spinta all’impiego di tecnologie ed energia più “verdi”. E la più totale apertura con cui il social network sta operando al riguardo, mettendo in tavola l’intera iniziativa, non fa che confermarne l’impegno, almeno sotto il profilo delle intenzioni.
Se poi le intenzioni non si tramuteranno in fatti concreti, allora sarà lecito infierire. Ma fino ad allora, ragionevolezza e buon senso permettono solo di osservare e attendere: perché chiedere, dunque, un impegno verso il quale il social network sta già dimostrando di essere più che orientato?
Marco Valerio Principato
Nbtimes - Certamente la potenza di calcolo e la connettività di cui ha bisogno una struttura come Facebook, oggi occupata da quasi 600 milioni di utenti, i quali caricano sui suoi server 100 milioni di foto al giorno, non è trascurabile. Per alimentarla occorre una quantità di energia notevole e Facebook, in prima battuta, non ha potuto che comprarla sul mercato, prescindendo dalle metodologie con cui tale energia viene prodotta: essendo logici, nessuno, trovandosi a decidere in seno al social network, avrebbe potuto dire “come è prodotta l’energia che mi vendi? Con il carbone? Allora non la compro”.
Appare alquanto strano che Greenpeace affermi di voler “sensibilizzare l’opinione pubblica sul silenzio di una delle più importanti società nel panorama Web odierno in merito alle proprie decisioni sulle tematiche ambientali”: sembrerebbe quasi non aver letto con attenzione i dettagli dell’iniziativa Open Compute Project, nella quale vi sono chiare indicazioni dell’intenzione di voler procedere esattamente in quella direzione. Il che è francamente difficile poterlo definire “silenzio”.
Inoltre, altrettanto difficilmente – se tutto questo non fosse reale – si scomoderebbero a parlarne realtà più che autorevoli come Technology Review, la rivista edita dal Massachusetts Institute of Technology, nella quale è illustrato con rigore l’intero scenario a cui si rivolge l’iniziativa del social network e le sfide che questo comporta, tenendo presente che la trasformazione da semplice consumatore di energia a entità quasi autonoma o, comunque, “verde”, per un sistema complesso ed esteso come Facebook non è operazione possibile a svolgersi nell’arco di qualche settimana.
L’iniziativa, infatti, è talmente di rilievo da aver fatto domandare ad alcuni osservatori se gli schemi sui quali si fonda non possano essere adottati anche da altre realtà in cui il fabbisogno energetico si attesti su valori simili.
Il nuovo data center che Facebook sta realizzando, per citare qualche numero – peraltro evincibile senza fatica sin dalla Home Page del progetto – comporta una riduzione del 38 per cento rispetto alla media dei consumi, con un PUE pari a 1,07 (il valore puramente ideale è 1), quindi ancora migliore del molto più applaudito data center Merlin di CapGemini, il cui PUE è “solo” pari a 1,08.
Tali valori, realmente degni di ogni rispetto, si possono ottenere con una serie di interventi di carattere sia progettistico che architetturale. Ne sono un esempio gli alimentatori custom a 277 Volt, che consentono di sfruttare direttamente una fase e il neutro della tensione di rete trifase che, negli Stati Uniti, è a 480 Volt (a differenza dell’Italia, dove essa è a 380 Volt e l’uso di una fase e del neutro consente di ricavare 220 Volt).
Altrettanto viene fatto per i sistemi di raffreddamento, attraverso un orientamento intelligente degli edifici nei quali diventa così possibile canalizzare naturalmente l’aria esterna e sfruttarla per raffreddare, come pure il raffreddamento realizzato mediante evaporazione anziché con normali impianti di condizionamento.
L’iniziativa di Greenpeace, dunque, parrebbe avere più il sapore di una leva mediatica che quello di una concreta spinta all’impiego di tecnologie ed energia più “verdi”. E la più totale apertura con cui il social network sta operando al riguardo, mettendo in tavola l’intera iniziativa, non fa che confermarne l’impegno, almeno sotto il profilo delle intenzioni.
Se poi le intenzioni non si tramuteranno in fatti concreti, allora sarà lecito infierire. Ma fino ad allora, ragionevolezza e buon senso permettono solo di osservare e attendere: perché chiedere, dunque, un impegno verso il quale il social network sta già dimostrando di essere più che orientato?
Marco Valerio Principato
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