La nostra Federica Scorpo intervista oggi Katia Scannavini, la donna che attraverso un’email ci ha raccontato di aver ingiustificatamente perso il lavoro al sesto mese di gravidanza (clicca qui per leggere i dettagli della sua storia della sua storia) e che vuole dare la sua diretta testimonianza con questa intervista.
D - Grazie innanzitutto della sua presenza; il suo rappresenta uno dei problemi più comuni di questi tempi per le donne e non solo. Ci racconti innanzitutto come si è svolta la collaborazione con l’azienda Italia Lavoro spa, sino alla rottura del rapporto lavorativo. Che tipo di contratto le era stato proposto? E ai suoi colleghi?
R - Occorre da subito fare una premessa importante per i nostri lettori, e spiegare che tipo di azienda è Italia Lavoro. Ebbene, Italia Lavoro è un’azienda totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia (ossia i fondi che gestisce l’azienda provengono tutti dal Ministero dell’Economia) e svolge le proprie attività per conto del Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali. Italia Lavoro, infatti, è impegnata nel mettere in atto le politiche attive del lavoro e in particolare promuovere l’inserimento di categorie vulnerabili
(i giovani, gli over 50, le donne, i diversamente abili, gli immigrati e così via). Io ho iniziato a lavorare con l’azienda nel 2006: per i primi anni mi sono occupata di immigrazione, poi di formazione. Soprattutto nell’ultima fase, mi sono occupata di trasferire competenze a chi lavora a vario titolo nei Centri per l’Impiego. La mia collaborazione è durata fino al 9 aprile scorso, quando l’Azienda mi ha inviato una lettera comunicandomi che – suo malgrado – si trovava nell’impossibilità di proseguire la nostra collaborazione. Tale impossibilità, a dire di Italia Lavoro, è nata perché io (come del resto molti altri colleghi con contratto a progetto o a tempo determinato) ho fatto quanto indicato a novembre scorso dal “collegato al lavoro”, ossia ho comunicato all’azienda che congelavo per così dire la mia posizione pregressa. Mi spiego meglio: sia io sia i miei colleghi informavamo l’Azienda che a fronte di una collaborazione che da sempre si strutturava – in diversi aspetti – come un lavoro di tipo subordinato, ci sembrava opportuno evidenziare tale situazione e quindi pensare a una possibile negoziazione o anche un semplice chiarimento da parte dei responsabili delle risorse umane. Ebbene, dopo due mesi dalla nostra comunicazione Italia Lavoro ci invia una raccomandata dove mette fine appunto alla nostra collaborazione. Nel mio caso specifico, questo avviene al sesto mese di gravidanza! Non solo quindi l’Agenzia tecnica del Ministero del Lavoro non prova a conciliare delle situazioni lavorative anomale presenti nei suoi uffici, ma agisce in termini indifferenziati su ogni lavoratore, mandando a casa anche una donna in gravidanza e quindi operando nella concretezza una discriminazione antisonante con la stessa mission aziendale.
D - Ad un certo punto lei scopre di aspettare un bambino. Ha avvisato l’azienda della sua condizione? E cosa le hanno risposto?
R - Ho avvisato da subito la mia responsabile, ossia una delle dirigenti dell’Azienda, anche perché i primi mesi della gravidanza sono stati segnati da malesseri e ho dovuto comunicare che non sarei potuta essere presente in azienda come sempre avevo fatto (e cioè sempre, non come un vero collaboratore quale ero per contratto, che per definizione non ha l’obbligo di presenza in ufficio). Inoltre, ho parlato con chi in amministrazione si occupa appunto delle procedure di maternità, che mi ha detto che non c’erano problemi: avrei giusto dovuto ricordarle il mio caso tra la fine di marzo e l’inizio di aprile. Ed effettivamente è quello che ho fatto: ho inviato un’email per ricordare che ero al sesto mese di gravidanza e chiedevo, quindi, le indicazioni necessarie per andare in maternità. La persona però addetta a tale procedure non mi ha mai risposto e poco dopo è arrivata la lettera di fine collaborazione. Ricevuta la lettera ho sentito comunque l’esigenza di parlare con questa collega, che visibilmente in imbarazzo mi ha detto di non avermi mai risposto perché così le era stato detto di fare.
D - Ha ricevuto la lettera di cessazione attività lavorativa prima della scadenza di contratto o a fine collaborazione? Se l’aspettava?E questo avviso ha coinvolto anche gli altri lavoratori dell’azienda?
R - Il mio contratto sarebbe scaduto il 31 dicembre del 2011, quindi la lettera è arrivata molto prima della scadenza e poco prima della maternità. A dire il vero non me l’aspettavo proprio. Chi si aspetterebbe che la propria azienda, impegnata nelle politiche attive del lavoro e nell’inserimento delle categorie dei lavoratori vulnerabili, potesse mandare a casa una donna in gravidanza? Ricordo, poi, che si tratta di un’azienda che opera per il Ministero del Lavoro, quindi la sorpresa e lo sconcerto sono senza dubbio ancora maggiori! E comunque, come dicevo, la lettera è arrivata ad altri colleghi, al momento pare siamo circa 17, ma il numero aumenta se prendiamo in considerazione tutti colori i quali, in quanto in scadenza di contratto, non si sono visti rinnovare la possibilità di collaborazione, sebbene i progetti o le aree nelle quali lavoravano stanno continuando le attività che essi stessi portavano avanti.
D - Come intende procedere nei riguardi dell’azienda e secondo lei perché sono andati avanti nella sua situazione sapendo che lei avrebbe potuto denunciare l’ingiustizia del caso?
R - A questo punto ho solo una possibilità, quella di rivolgermi a un tribunale e quindi di richiedere per vie legali che si stabiliscano i torti e le ragioni rispetto agli anni di lavoro svolti nell’azienda e nel caso specifico in merito a questa interruzione di collaborazione sopraggiunta al sesto mese di gravidanza. Molti altri colleghi hanno già intrapreso questa strada e molti altri lo stanno per fare. Ciò significa che è altamente probabile che a breve l’azienda si troverà a dovere risarcire molti lavoratori. Come lo farà? Come ha fatto fino ad oggi, ossia utilizzando soldi pubblici!
In merito al fatto che nel mio caso sono andati avanti nonostante la mia situazione, beh, non credo che si aspettassero questa mia reazione. In Italia ormai molti credono che si possa veramente fare di tutto, tanto chi si trova in situazioni di debolezza non avrà mai la forza di ribellarsi… Inoltre, immagino che paradossalmente proprio il fatto di avere alle spalle un’istituzione pubblica – come appunto i Ministeri – garantisca la salvaguardia dell’azienda stessa e forse anche di chi ne gestisce l’organizzazione interna.
D - I lavori flessibili sono una realtà comune. Sappiamo che questi contratti a progetto non tutelano i lavoratori e che le aziende da un momento all’altro possono rompere gli accordi lavorativi. Come si vive non avendo la certezza di un domani?
R - Sono molte le famiglie coinvolte in questo problema sociale. Sì, perché la precarietà è una delle piaghe più profonde della nostra società. Tutte queste famiglie sanno bene quanto e come sia difficile sopravvivere in una situazione lavorativa fragile e in continua precarietà: non è possibile fare progetti di nessun tipo, ma ancora più grave non ci si trova nella condizione di vivere la propria vita. Si sopravvive nella speranza continua di conquistare qualche mese di lavoro e quindi di rispondere alle proprie esigenze quotidiane, ma non di vita. Spesso non si può costruire una famiglia, non si può accedere a un mutuo, non si può programmare neppure il futuro prossimo. Molti – soprattutto alcuni politici – confondono la precarietà con la flessibilità, adducendo che oggi il mercato vuole lavoratori capaci di muoversi tra più contesti e che soprattutto i lavoratori stessi non vogliono più sentirsi legati a un unico posto di lavoro. Ebbene, tutto ciò in verità – e a mio avviso – risponde solo alle esigenze di economia delle aziende e del mercato del lavoro tout court. La situazione reale è che i lavori non sono nelle condizioni di muoversi con fluidità in un mercato che non propone offerte valide, e, si badi bene, questo succedeva anche prima della crisi di cui tutti parlano e che molti usano per nascondere malesseri pregressi!
Inoltre, non dimentichiamo che per definizione chi lavora in queste condizioni dovrebbe essere per di più un lavoratore qualificato e quindi pagato di più rispetto alla media, per garantirsi un sostentamento tra un passaggio e l’altro del lavoro e soprattutto per pensare a forme previdenziali alternative, visto che chi lavora come precario sarà domani un pensionato con una pensione vicina a quella sociale! Insomma, è impossibile vivere senza certezze per il domani: si è perennemente in bilico.
D - Adesso cosa intende fare? E, soprattutto, visto che la sua sarà una bambina, cosa spera per lei e per il vostro futuro?
R - In primo luogo ho sentito la necessità di rendere pubblica la mia storia e credo che non mi fermerò qui. Per tentare di garantire un futuro migliore a tutti noi, e quindi anche a mia figlia, sento fondamentale l’impegno nella mobilitazione e nel rivendicare dei diritti che, seppure scritti sulla carta, sono costantemente rinnegati nel vivere quotidiano. Mi auguro che il futuro riservi a tutti un vivere più dignitoso, dove le parole democrazia e giustizia abbiano un valore e corrispondano realmente al loro significato. Mi auguro tutto ciò si possa realizzare non solo nel nostro Paese.
La ringraziamo per la sua testimonianza che rappresenta l’incertezza in cui viviamo e in cui vivono soprattutto i giovani che dopo anni di studi universitari si ritrovano con contratti a progetto per anni, o addirittura senza neanche un lavoro, senza poter progettare una famiglia perché non si hanno garanzie, senza sapere cosa ne sarà del domani.
D - Grazie innanzitutto della sua presenza; il suo rappresenta uno dei problemi più comuni di questi tempi per le donne e non solo. Ci racconti innanzitutto come si è svolta la collaborazione con l’azienda Italia Lavoro spa, sino alla rottura del rapporto lavorativo. Che tipo di contratto le era stato proposto? E ai suoi colleghi?
R - Occorre da subito fare una premessa importante per i nostri lettori, e spiegare che tipo di azienda è Italia Lavoro. Ebbene, Italia Lavoro è un’azienda totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia (ossia i fondi che gestisce l’azienda provengono tutti dal Ministero dell’Economia) e svolge le proprie attività per conto del Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali. Italia Lavoro, infatti, è impegnata nel mettere in atto le politiche attive del lavoro e in particolare promuovere l’inserimento di categorie vulnerabili
(i giovani, gli over 50, le donne, i diversamente abili, gli immigrati e così via). Io ho iniziato a lavorare con l’azienda nel 2006: per i primi anni mi sono occupata di immigrazione, poi di formazione. Soprattutto nell’ultima fase, mi sono occupata di trasferire competenze a chi lavora a vario titolo nei Centri per l’Impiego. La mia collaborazione è durata fino al 9 aprile scorso, quando l’Azienda mi ha inviato una lettera comunicandomi che – suo malgrado – si trovava nell’impossibilità di proseguire la nostra collaborazione. Tale impossibilità, a dire di Italia Lavoro, è nata perché io (come del resto molti altri colleghi con contratto a progetto o a tempo determinato) ho fatto quanto indicato a novembre scorso dal “collegato al lavoro”, ossia ho comunicato all’azienda che congelavo per così dire la mia posizione pregressa. Mi spiego meglio: sia io sia i miei colleghi informavamo l’Azienda che a fronte di una collaborazione che da sempre si strutturava – in diversi aspetti – come un lavoro di tipo subordinato, ci sembrava opportuno evidenziare tale situazione e quindi pensare a una possibile negoziazione o anche un semplice chiarimento da parte dei responsabili delle risorse umane. Ebbene, dopo due mesi dalla nostra comunicazione Italia Lavoro ci invia una raccomandata dove mette fine appunto alla nostra collaborazione. Nel mio caso specifico, questo avviene al sesto mese di gravidanza! Non solo quindi l’Agenzia tecnica del Ministero del Lavoro non prova a conciliare delle situazioni lavorative anomale presenti nei suoi uffici, ma agisce in termini indifferenziati su ogni lavoratore, mandando a casa anche una donna in gravidanza e quindi operando nella concretezza una discriminazione antisonante con la stessa mission aziendale.
D - Ad un certo punto lei scopre di aspettare un bambino. Ha avvisato l’azienda della sua condizione? E cosa le hanno risposto?
R - Ho avvisato da subito la mia responsabile, ossia una delle dirigenti dell’Azienda, anche perché i primi mesi della gravidanza sono stati segnati da malesseri e ho dovuto comunicare che non sarei potuta essere presente in azienda come sempre avevo fatto (e cioè sempre, non come un vero collaboratore quale ero per contratto, che per definizione non ha l’obbligo di presenza in ufficio). Inoltre, ho parlato con chi in amministrazione si occupa appunto delle procedure di maternità, che mi ha detto che non c’erano problemi: avrei giusto dovuto ricordarle il mio caso tra la fine di marzo e l’inizio di aprile. Ed effettivamente è quello che ho fatto: ho inviato un’email per ricordare che ero al sesto mese di gravidanza e chiedevo, quindi, le indicazioni necessarie per andare in maternità. La persona però addetta a tale procedure non mi ha mai risposto e poco dopo è arrivata la lettera di fine collaborazione. Ricevuta la lettera ho sentito comunque l’esigenza di parlare con questa collega, che visibilmente in imbarazzo mi ha detto di non avermi mai risposto perché così le era stato detto di fare.
D - Ha ricevuto la lettera di cessazione attività lavorativa prima della scadenza di contratto o a fine collaborazione? Se l’aspettava?E questo avviso ha coinvolto anche gli altri lavoratori dell’azienda?
R - Il mio contratto sarebbe scaduto il 31 dicembre del 2011, quindi la lettera è arrivata molto prima della scadenza e poco prima della maternità. A dire il vero non me l’aspettavo proprio. Chi si aspetterebbe che la propria azienda, impegnata nelle politiche attive del lavoro e nell’inserimento delle categorie dei lavoratori vulnerabili, potesse mandare a casa una donna in gravidanza? Ricordo, poi, che si tratta di un’azienda che opera per il Ministero del Lavoro, quindi la sorpresa e lo sconcerto sono senza dubbio ancora maggiori! E comunque, come dicevo, la lettera è arrivata ad altri colleghi, al momento pare siamo circa 17, ma il numero aumenta se prendiamo in considerazione tutti colori i quali, in quanto in scadenza di contratto, non si sono visti rinnovare la possibilità di collaborazione, sebbene i progetti o le aree nelle quali lavoravano stanno continuando le attività che essi stessi portavano avanti.
D - Come intende procedere nei riguardi dell’azienda e secondo lei perché sono andati avanti nella sua situazione sapendo che lei avrebbe potuto denunciare l’ingiustizia del caso?
R - A questo punto ho solo una possibilità, quella di rivolgermi a un tribunale e quindi di richiedere per vie legali che si stabiliscano i torti e le ragioni rispetto agli anni di lavoro svolti nell’azienda e nel caso specifico in merito a questa interruzione di collaborazione sopraggiunta al sesto mese di gravidanza. Molti altri colleghi hanno già intrapreso questa strada e molti altri lo stanno per fare. Ciò significa che è altamente probabile che a breve l’azienda si troverà a dovere risarcire molti lavoratori. Come lo farà? Come ha fatto fino ad oggi, ossia utilizzando soldi pubblici!
In merito al fatto che nel mio caso sono andati avanti nonostante la mia situazione, beh, non credo che si aspettassero questa mia reazione. In Italia ormai molti credono che si possa veramente fare di tutto, tanto chi si trova in situazioni di debolezza non avrà mai la forza di ribellarsi… Inoltre, immagino che paradossalmente proprio il fatto di avere alle spalle un’istituzione pubblica – come appunto i Ministeri – garantisca la salvaguardia dell’azienda stessa e forse anche di chi ne gestisce l’organizzazione interna.
D - I lavori flessibili sono una realtà comune. Sappiamo che questi contratti a progetto non tutelano i lavoratori e che le aziende da un momento all’altro possono rompere gli accordi lavorativi. Come si vive non avendo la certezza di un domani?
R - Sono molte le famiglie coinvolte in questo problema sociale. Sì, perché la precarietà è una delle piaghe più profonde della nostra società. Tutte queste famiglie sanno bene quanto e come sia difficile sopravvivere in una situazione lavorativa fragile e in continua precarietà: non è possibile fare progetti di nessun tipo, ma ancora più grave non ci si trova nella condizione di vivere la propria vita. Si sopravvive nella speranza continua di conquistare qualche mese di lavoro e quindi di rispondere alle proprie esigenze quotidiane, ma non di vita. Spesso non si può costruire una famiglia, non si può accedere a un mutuo, non si può programmare neppure il futuro prossimo. Molti – soprattutto alcuni politici – confondono la precarietà con la flessibilità, adducendo che oggi il mercato vuole lavoratori capaci di muoversi tra più contesti e che soprattutto i lavoratori stessi non vogliono più sentirsi legati a un unico posto di lavoro. Ebbene, tutto ciò in verità – e a mio avviso – risponde solo alle esigenze di economia delle aziende e del mercato del lavoro tout court. La situazione reale è che i lavori non sono nelle condizioni di muoversi con fluidità in un mercato che non propone offerte valide, e, si badi bene, questo succedeva anche prima della crisi di cui tutti parlano e che molti usano per nascondere malesseri pregressi!
Inoltre, non dimentichiamo che per definizione chi lavora in queste condizioni dovrebbe essere per di più un lavoratore qualificato e quindi pagato di più rispetto alla media, per garantirsi un sostentamento tra un passaggio e l’altro del lavoro e soprattutto per pensare a forme previdenziali alternative, visto che chi lavora come precario sarà domani un pensionato con una pensione vicina a quella sociale! Insomma, è impossibile vivere senza certezze per il domani: si è perennemente in bilico.
D - Adesso cosa intende fare? E, soprattutto, visto che la sua sarà una bambina, cosa spera per lei e per il vostro futuro?
R - In primo luogo ho sentito la necessità di rendere pubblica la mia storia e credo che non mi fermerò qui. Per tentare di garantire un futuro migliore a tutti noi, e quindi anche a mia figlia, sento fondamentale l’impegno nella mobilitazione e nel rivendicare dei diritti che, seppure scritti sulla carta, sono costantemente rinnegati nel vivere quotidiano. Mi auguro che il futuro riservi a tutti un vivere più dignitoso, dove le parole democrazia e giustizia abbiano un valore e corrispondano realmente al loro significato. Mi auguro tutto ciò si possa realizzare non solo nel nostro Paese.
La ringraziamo per la sua testimonianza che rappresenta l’incertezza in cui viviamo e in cui vivono soprattutto i giovani che dopo anni di studi universitari si ritrovano con contratti a progetto per anni, o addirittura senza neanche un lavoro, senza poter progettare una famiglia perché non si hanno garanzie, senza sapere cosa ne sarà del domani.
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