martedì, aprile 05, 2011
Il mese scorso il Governo ha reso noto il testo del disegno di legge costituzionale sulla riforma della giustizia, approvato dal Consiglio dei ministri ed ora all’esame delle competenti commissioni parlamentari

del nostro esperto Bartolo Salone

L’iter di approvazione del disegno di legge costituzionale si profila alquanto lungo e travagliato, con una opposizione che minaccia di dare battaglia e una maggioranza intenzionata ad andare fino in fondo ad una riforma radicale della magistratura, che presenta, a dire il vero, molte più ombre che luci. In via preliminare occorre osservare, a scanso di equivoci, che quella prospettata dal Governo non è una vera e propria riforma della “giustizia”: il testo licenziato dal Consiglio dei ministri non tocca, se non marginalmente e indirettamente, i temi legati alla qualità del servizio giudiziario (durata dei processi, organico adeguato, depenalizzazione dei reati c. d. “bagattellari”, potenziamento degli strumenti di indagine), ma riguarda unicamente la magistratura quale ordine cui la Costituzione commette il delicato esercizio della funzione giurisdizionale, assicurando le necessarie garanzie di autonomia ed indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato a salvaguardia dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Dunque, una riforma sostanziale della magistratura, equivocamente presentata come riforma della giustizia. Prova ne sia che oggetto dell’intento riformatore è l’intero Titolo IV della parte seconda della Costituzione, rubricato attualmente “La Magistratura”, ma che con la riforma è destinato ad assumere la denominazione “La Giustizia”. Denominazione poco appropriata, ad esser sinceri, visto che la sola norma attinente alla giustizia in senso stretto è quella che si intende inserire nel disposto dell’art. 111 Cost. (recante, come è noto, i principi del giusto processo) sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.

Risulta altresì modificata – e per di più poco comprensibile – la collocazione dei pubblici ministeri all’interno dell’ordine giudiziario. Nell’attuale assetto costituzionale non vi sono dubbi sul fatto che sia i giudici che i pubblici ministeri fanno parte della magistratura quale ordine autonomo e indipendente da ogni “altro” potere (art. 104 Cost.). Questo significa che i p.m. debbano godere delle medesime garanzie di indipendenza verso il potere politico di cui godono i loro colleghi giudici, con la sola differenza della diversità di funzioni esercitate: i giudici infatti emettono le sentenze, accertando la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato (funzione giudicante), mentre i p.m. svolgono le indagini ed esercitano l’azione penale, sostenendo l’accusa in giudizio (funzione requirente). L’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della sua delicatissima funzione requirente (la quale costituisce presupposto indispensabile per la successiva attività di giudizio, poiché, come è evidente, in mancanza delle indagini e dell’esercizio dell’azione penale mediante la richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato non si potrebbe celebrare nessun processo), probabilmente danno fastidio all’attuale maggioranza politica, se nella ipotizzata riforma costituzionale da un lato si intende “pilotare” l’esercizio dell’azione penale attraverso la previsione per cui il p.m. esercita l’azione penale (nonostante tutto definita ancora “obbligatoria”) secondo i criteri stabiliti dalla legge (espressione della maggioranza politica di turno) e dall’altro si dice che i giudici (e non già la magistratura nel suo complesso, comprensiva quindi dei pubblici ministeri, come prevede tutt’oggi l’art. 104 Cost.) costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni (e non da ogni “altro”) potere. Dunque, abbiamo una situazione paradossale, per cui da un lato i pubblici ministeri continuano ad essere qualificati come magistrati, ma ciononostante paiono non essere più inquadrati all’interno dell’ordine giudiziario, visto che la qualifica di “ordine” sembra spettare, nel nuovo testo della Costituzione, ai soli giudici, con una ambiguità di fondo che volutamente il testo della riforma coltiva, non mostrandosi viceversa altrettanto ambiguo allorché si tratta di negare risolutamente la natura di potere perfino alla magistratura giudicante. Il nuovo art. 101 Cost. (“I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge”), se messo a confronto con il vigente art. 104 Cost. (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”) mostra il chiaro intento di sminuire la dignità della funzione giurisdizionale (non più qualificata in termini di “potere”, a differenza della funzione legislativa e di quella esecutiva) nonché di consentire al legislatore di discriminare la posizione di indipendenza di cui giudici e p.m. dovrebbero in egual misura godere nei confronti del potere politico, costituendo la funzione requirente presupposto indefettibile di quella giudicante e, quindi, insieme a quest’ultima, mezzo attraverso cui si attua la “giurisdizione”.

Particolarmente inquietante è altresì la modifica, in apparenza così innocua, che si intende introdurre nel testo dell’art. 109 Cost., che attualmente recita: “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” e che invece, ove venisse approvata la legge di revisione costituzionale, suonerebbe: “Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge”. In tal modo si consente alla legge di introdurre delle limitazioni al principio della diretta disposizione delle forze di polizia da parte dell’autorità giudiziaria, con gli immaginabili inconvenienti che si delineerebbero in termini non solo di garanzia delle libertà del cittadino, ma anche di efficacia e, soprattutto, di libertà delle indagini. Del resto, il Costituente, nell’affermare il principio di grande democrazia insito nell’art. 109 Cost., aveva ben a mente l’esperienza del fascismo italiano, in cui non soltanto l’azione penale non era davvero obbligatoria (spettando all’esecutivo definire l’ordine di priorità dei reati da perseguire), ma in cui addirittura il potere giudiziario doveva rivolgersi all’esecutivo per ottenere il “supporto” poliziesco necessario a dare esecuzione ai provvedimenti restrittivi della libertà personale e a svolgere l’attività investigativa. Il nuovo inciso “secondo le modalità stabilite dalla legge”, a ben considerare, circoscrive ulteriormente l’indipendenza funzionale non tanto del giudice quanto del pubblico ministero, il quale si serve della polizia giudiziaria, prima ancora che inizi il processo, per fare le indagini.

Per il resto, la riforma interviene sui seguenti punti: separazione delle carriere, Consiglio superiore della magistratura, responsabilità dei magistrati. Nonostante la complessità della materia ci suggerisca di rimandare l’esame di questi punti ad un successivo approfondimento, possiamo qui anticipare, a conclusione del presente intervento, come l’ispirazione di fondo sia sempre la stessa: limitare l’autonomia e l’indipendenza, sia interna che esterna, della magistratura, sul piano non solo funzionale, ma anche organizzativo, facendone – come vedremo – un organo sottoposto a costante tutela “legislativa”.

Per la seconda parte, clicca qui.

È presente 1 commento

Anonimo ha detto...

Scrivete ancora su questo tema, noi cittadini abbiamo il diritto di conoscere in profondità la riforma della giustizia. pardon, della magistratura.

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