domenica, aprile 10, 2011
del nostro esperto in materia Bartolo Salone

Continuiamo la nostra disamina sulla riforma costituzionale della giustizia presentata dal Governo, mettendo a fuoco alcune delle novità più significative. Uno dei punti più importanti della riforma è rappresentato dalla separazione delle carriere fra giudice e p. m., principio destinato a sostituire quello della separazione delle funzioni sancito dal vigente art. 107, c. 3 Cost., per il quale “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Non è la separazione delle carriere in sé e per sé a destare motivo di preoccupazione (per quanto chi scrive non condivida l’assunto, che suona più come un teorema, per cui la separazione delle carriere assicuri meglio dell’attuale sistema, ispirato alla separazione delle sole funzioni, l’imparzialità del giudizio), ma piuttosto il fatto che la separazione delle carriere, nell’ambito della riforma costituzionale, costituisca il pretesto per incidere sulle garanzie di autogoverno della magistratura, mediante una radicale revisione dei compiti e del ruolo del CSM.

Il Consiglio superiore della magistratura svolge nell’attuale sistema costituzionale la fondamentale funzione di garantire l’indipendenza, sul piano organizzativo e funzionale, della magistratura. Al CSM spettano, infatti, “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.). La composizione del CSM (i componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori universitari in materie giuridiche e avvocati con più di quindici anni di esercizio) rispecchia perfettamente la sua funzione di organo di autogoverno della magistratura, mentre la previsione di una componente minoritaria di nomina parlamentare intende scongiurare il pericolo di chiusure “corporative” da parte dell’ordine giudiziario.

Questo ingegnoso impianto voluto dal Costituente al fine di assicurare l’equilibrio tra i poteri dello Stato è radicalmente stravolto dal testo della riforma. Innanzitutto al CSM viene sottratto il potere disciplinare, che viene attribuito ad un organismo ad hoc, denominato “Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente”. Inoltre il CSM viene “diviso” in due, essendo previsto un CSM per la magistratura requirente e un CSM per la magistratura giudicante, conformemente al principio della separazione delle carriere. Tutti e tre questi organi risultano poi composti paritariamente da soggetti designati dai magistrati e dal Parlamento. La componente parlamentare in seno ai CSM e alla Corte di disciplina non è più minoritaria (come previsto dalla attuale Costituzione per il CSM) ma è pari al 50 per cento dei componenti dei rispettivi organi. Non solo, ma è addirittura previsto che i magistrati, nel designare i loro rappresentanti in seno ai due CSM e alla Corte di disciplina, devono procedere al previo sorteggio degli eleggibili. La norma vuole evitare che i magistrati esprimano delle correnti “politiche” in seno ai predetti organi, affidando la nomina dei loro rappresentanti in parte al caso. Il principio in sé è sacrosanto. Non si capisce però perché la medesima regola non debba valere per i componenti di nomina parlamentare, dove il rischio di nomine dettate da motivi politici è sicuramente maggiore. A quanto pare, per il legislatore di riforma l’esistenza di correnti politiche in seno agli organismi che decidono sul futuro professionale e sui provvedimenti disciplinari da irrogare ai magistrati non costituiscono un grave problema, purché si tratti di correnti espressive dalla maggioranza parlamentare del momento.

Nel sistema prefigurato dalla proposta di riforma della Costituzione, il CSM (al pari della Corte di disciplina, che a ben vedere è un terzo CSM specializzato nella materia disciplinare) cessa di essere un organo di autogoverno, diventando piuttosto un organo di controllo politico-parlamentare sulla magistratura.

Non pago di incrinare l’indipendenza “esterna” della magistratura, il legislatore di riforma si preoccupa anche di colpire l’indipendenza “interna” e funzionale, mediante l’enunciazione del principio della responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti.

Ora, non v’è dubbio che, se un magistrato sbaglia, provocando un danno alla libertà o alla reputazione delle persone, ne debba rispondere, non solo penalmente (se il fatto costituisce reato), ma anche civilmente. Tuttavia, la disciplina della responsabilità civile dei magistrati non può essere strutturata come quella di un qualunque altro dipendente o funzionario dello Stato, ma deve essere congegnata in modo tale da non interferire con l’esercizio, in autonomia e indipendenza, della funzione giurisdizionale. Bisogna cioè fare in modo di mettere al riparo il magistrato da azioni giudiziarie pretestuose, motivate dal risentimento o dal senso di rivalsa verso la persona da cui si è stati giudicati o condannati. D’altronde, se per ogni processo civile o penale la parte soccombente o l’imputato condannato intentasse anche solo per ripicca un’azione civile verso il suo giudice, non soltanto avremmo una controproducente moltiplicazione dei processi, ma metteremmo il magistrato, continuamente esposto alla minaccia di azioni giudiziarie dal carattere pretestuoso, in condizione di non poter più svolgere serenamente il suo lavoro. L’attuale legislazione intende evitare una simile distorsione, prevedendo un sistema di responsabilità “indiretta” del magistrato. In altri termini, il cittadino che ritenga di essere stato trattato ingiustamente non fa causa direttamente al magistrato, bensì allo Stato. Sarà dunque quest’ultimo a pagare eventualmente il risarcimento al cittadino, salvo rivalersi sul magistrato che con la sua condotta manchevole abbia cagionato il danno. In tal modo il cittadino viene interamente risarcito del pregiudizio subito e la funzione giudiziaria viene salvaguardata nel suo concreto esplicarsi.

La responsabilità “diretta”, invero, non aggiungerebbe nulla alla tutela del cittadino (al quale importa solo di essere risarcito in maniera congrua del pregiudizio subito, a prescindere da chi, magistrato o Stato, effettivamente paga), ma servirebbe solo a mettere i bastoni fra le ruote ai magistrati, pregiudicando il sereno esercizio delle loro funzioni. E una riforma della giustizia non vuole certo questo… vero?

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