giovedì, aprile 21, 2011
della nostra corrispondente Federica Scorpo

Michela Buscemi è una delle tante vittime della mafia. Ha perso due fratelli per mano mafiosa: Salvatore per aver venduto sigarette di contrabbando all’insaputa dei mafiosi, che non perdonarono quel gesto, e Rodolfo perché indagava su chi fossero i colpevoli dell’omicidio del fratello. Michela allora reagì, da sola, e decise di parlare, costituendosi parte civile al maxi-processo dell’’86 e testimoniando contro gli assassini dei fratelli. Sotto minaccia non riuscì a portare a termine il processo, ma ha comunque ottenuto giustizia. Oggi si dedica anima e corpo alla lotta alla mafia partendo dai giovani, che attraverso la sua testimonianza possono riflettere e decidere di cambiare strada.

Ha scritto un libro in cui ha raccontato la sua difficile vita, “Nonostante la paura”, e ha pubblicato diverse poesie dedicate alla lotta antimafia. Oggi è ai microfoni de La Perfetta Letizia.

D - Buongiorno Michela e grazie per questa intervista. Nel 2005 lei ha pubblicato un’autobiografia dal titolo “Nonostante la paura”, Edizione Meridiana, attualmente ristampato. Da cosa nasce questo desiderio di condividere la sua vita in un libro?
R - Mi ha spinto il desiderio di parlare, soprattutto ai giovani che magari subiscono violenze in famiglia: volevo mandare loro il messaggio di ribellarsi e di non sottostare alle angherie. Il titolo deriva dal fatto che nonostante avessi paura, ho scritto questo libro proprio per dare questo messaggio. Non l’ho scelto io ma la casa editrice, infatti io lo avrei chiamato ad esempio “una donna del popolo”, perché io mi sento una donna del popolo, non sono di un ceto sociale elevato, sono una popolana cresciuta nella povertà e ci sono cose dell’infanzia e dell’adolescenza che non si possono dimenticare.

D - Lei rappresenta una delle donne che ha lottato e continua a farlo per sconfiggere la mafia, che le ha ucciso due fratelli. Nel Maxiprocesso dell’’86 si è costituita parte civile proprio per avere giustizia e questa decisione l’ha portata a essere isolata dalla sua famiglia di origine (e non solo): com’è cambiata la sua vita dopo questo passo ?
R - Quando ho preso questa decisione, prima di tutto non l’ho detto a mio marito e non ho chiesto il permesso, perché mi sembrava una cosa normale da fare. Subito ho avuto contro la mia famiglia d’origine, che mi ha attaccato anche sui giornali dissociandosi e prendendo le distanze. Persi anche i clienti del bar che gestivo insieme a mio marito: poco tempo dopo ho dovuto chiuderlo. Anche il vicinato, quando passavo con la macchina, rientrava dentro… forse avevano paura che magari mi sparassero e loro potessero restarne coinvolti.

D - Lei ha vissuto in prima persona cosa significa abbattere il muro di omertà che protegge le attività mafiose e durante il processo è stata anche minacciata perché tornasse sui suoi passi. Come ci si sente di fronte al desiderio di voler fare giustizia e all’impossibilità di farlo, perché la propria famiglia è in pericolo? Crede di aver avuto giustizia per i suoi fratelli? E, soprattutto, le istituzioni come l’hanno aiutata?
R - In realtà sono stata minacciata più volte durante il processo di primo grado che durò un anno e mezzo. A mio marito e ai miei figli non dicevo nulla per non farli spaventare e mi confidavo con l’Associazione delle donne contro la mafia, di cui facevo parte già dall’’86. Nell’’89 iniziò il processo d’appello e dopo qualche mese arrivò la telefonata più terribile, la minaccia rivolta a mia figlia, per cui lo dissi a mio marito. Così Umberto Santino e Anna Puglisi (del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato") mi accompagnarono dall’avvocato che mi consigliò di ritirarmi dal processo per non rischiare che fossero uccisi altri innocenti. Così feci, ma andai in aula per dire il perché del mio ritiro, una cosa che mi sembrava normalissima… ma poi scoprii che non era così.
Quali istituzioni? In quel momento mi sono trovata vicino solo il Sindaco di Palermo che si è messo a disposizione per pagarmi gli avvocati perché io non potevo. Mi diede un assegno di dieci milioni delle vecchie lire che ho subito dato all’avvocato. Per il resto non ho avuto altri aiuti. Ho, comunque, avuto giustizia per i miei fratelli: il processo non era solo per loro ma comprendeva più di novanta omicidi di quelli conosciuti e ci sono state condanne pesantissime.

D - Oggi chi è Michela Buscemi ? Come vive e come continua questa lotta alla mafia?
R - Quando mi sono ritirata dal processo ho giurato a me stessa che avrei lottato fuori dal tribunale. Cerco di contribuire come posso andando nelle scuole, attraverso la mia testimonianza, con la speranza che se tra i ragazzi che mi ascoltano ci sono figli di mafiosi, quando tornano a casa possano riflettere e decidano di comportarsi diversamente dai loro genitori. Oggi ho una certa età ma non mi ferma nessuno, fino a quando posso camminare, vado. Contribuisco anche all’Associazione Libera, di cui faccio parte da quando è nata: prima eravamo pochi i parenti delle vittime della mafia presenti alla Giornata della Memoria, adesso siamo molti, grazie a Don Ciotti e al suo carisma che ha saputo coinvolgere anche tanti giovani e che ha permesso di trasformare molti beni confiscati alla mafia in campi di lavoro per loro.

D - Cosa vuol dire alle donne vittime della mafia? E cosa dice nei suoi incontri con le scuole, ai giovani?
R- Alle donne dico che non devono scoraggiarsi perché domani è un altro giorno e devono continuare a vivere. Se sanno chi ha ucciso i loro cari devono parlare. Ai giovani che devono lottare, sin dall’inizio contro amici e parenti.
Mi chiedevano di andarmene dalla Sicilia e che mi avrebbero ospitato insieme alla mia famiglia, e io rispondevo: “Ma perché io me ne devo andare? I mafiosi se ne devono andare. Abbandonare la nostra terra? Io amo questa bellissima terra e non vado da nessuna parte”. Ma il vero problema è che se arrestano 30 mafiosi, ne entrano nelle cosche altri 50… e poi i mafiosi escono dal carcere facilmente. Il 23 maggio e il 19 luglio (anniversari della morte di Falcone e Borsellino) sono diventati ormai passerelle per vip… Mi piacerebbe che nelle scuole si parlasse di più di questo per fare in modo che la gioventù cresca con una mentalità diversa, non con una cultura mafiosa del silenzio e del subire.

Ringraziamo sentitamente Michela Buscemi che ci ha regalato un esempio di coraggio ineguagliabile al quale ispirarsi. Solo il coraggio può sconfiggere la mafia e quello di Michela Buscemi è degno di ammirazione e grandi elogi.

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