domenica, aprile 10, 2011
La monarchia, e al-Jazeera, sempre più al centro dello scacchiere mondiale. Lo sapevano tutti, ma qualcuno adesso lo ha ammesso. Le armi dei ribelli, quelle con le quali è stato possibile iniziare l'insurrezione armata del 17 febbraio in Libia, sono arrivate dall'estero. Il primo ad dichiararlo, intervistato da al-Jazeera, è stato Abdel Fattah Younis, ritenuto ormai il comandante militare degli insorti. Sono arrivate dal Qatar.

PeaceReporter - In particolare, dice Younis, razzi anticarro. Fondamentali in uno scontro tra i fedelissimi del colonnello Muammar Gheddafi, che possono contare su blindati e tank, e brigate di guerriglieri armati come capita. Riducono l'impatto della superiorità dei mezzi. Lo sapeva bene, Younis, visto che è stato ministro degli Interni del regime di Gheddafi e capo delle Forze Speciali. Un uomo di fiducia del Colonnello, perché altrimenti in un regime paranoico come quello libico non si arriva a posti di una tale importanza strategica. Poco dopo l'insurrezione, attorno alla fine di febbraio, Younis cambia casacca e passa con gli insorti divenendone uno dei leader militari.

Younis non è stato l'unico gerarca a cambiare - in tutta fretta - schieramento. In una precedente intervista, sempre ad al-Jazeera, Younis ha dichiarato: "Ho aderito alla rivolta il secondo giorno di disordini a Bengasi e ne sono fiero. Quando ho visto le vittime ingiustificate della repressione, giovani disarmati, ho ordinato a poliziotti e agenti delle forze speciali di cessare il fuoco sui civili. Li ho autorizzati solo a difendersi, mirando alle gambe. Da Tripoli, però, gli ordini erano differenti. Ho deciso da che parte stare''. Scrupolo che non ha avvertito nel 2006, quando i suoi uomini hanno aperto il fuoco sui dimostranti a Bengasi.

A nessuno, nella vita, è proibito cambiare idea. Anche se la velocità con la quale ministri, dirigenti, capi militari e diplomatici libici hanno abbandonato un regime che fino al giorno prima avevano retto e contribuito a gestire rimane materia da approfondire. Come Younis non è stato l'unico a cambiare casacca, il Qatar non è stato l'unico Paese a fornire armi ai ribelli. L'Arabia Saudita, ad esempio, sollecitata o meno dagli Stati Uniti. Gli stessi Usa, la Francia e la Gran Bretagna. Anche rispetto alle forniture e al sostegno offerto ai ribelli ben prima dell'intervento Nato, o addirittura prima della stessa insurrezione, si dovrà ancora capire molto.

Un fatto certo, uno dei pochi, è la centralità che il Qatar ha saputo ricavarsi nella diplomazia internazionale. Una piccola monarchia, con meno di 400mila abitanti, indipendente dal 1971. Legata in modo indissolubile alla dinastia regnante, gli al-Thani. Petrolio, certo, ma anche una lungimiranza politica che ha reso la piccola penisola del Golfo Persico un Paese strategico.

L'agenda internazionale dei prossimi giorni? Per iniziare la crisi dello Yemen. ''Stiamo lavorando a un accordo tra maggioranza e opposizione in Yemen per arrivare alla fine dell'era del presidente Ali Abdullah Saleh'', ha dichiarato il premier del Qatar, sottolineando la centralità del suo Paese nella gestione della crisi.

Dossier Libia? Oltre al già citato sostegno ai ribelli, il Qatar partecipa alla missione internazionale contro Gheddafi con quattro caccia. Ovvio che il contributo non sia militare, quanto politico. Nei giorni scorsi, al Cairo, il capo di stato maggiore dell'esercito qatariota, Hamad Ben Ali al-Attiya, è ha incontrato i vertici della Giunta militare in Egitto che ha preso il posto di Mubarak per ''studiare strategie condivise nella regione''. Per finire il 13 aprile prossimo è convocata una riunione del gruppo di contatto sulla Libia a Doha, capitale del Qatar. Fino ad arrivare all'assegnazione al Qatar, per il 2022, dei mondiali di calcio. Che sono una vittoria tutta politica, non certo sportiva.

Un'attività quasi frenetica, una centralità davvero sorprendente rispetto agli equilibri regionali, dove il Qatar ormai fa ombra all'Arabia Saudita, alleato storico dell'Occidente nella zona, ma divenuto 'instabile' per Washington dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, quando quasi tutti gli attentatori suicidi erano sauditi. Il Bahrein, vicino di casa, è diventato la casa della V flotta militare Usa, ma la ribellione degli sciiti rende instabile il Paese. Al punto che sauditi ed Emirati hanno ritenuto opportuno intervenire con le armi, mentre il Qatar ha scelto di tenersi fuori. Perché non è costume dell'emiro al-Thani 'schierarsi' contro gli insorti, di qualsiasi tipo.

Per capirlo basta guardare, fin dai primi giorni della 'primavera araba', al-Jazeera. La penisola, appunto, che prende il nome proprio dalla conformazione del Qatar. L'emiro di Doha ne è l'editore, dopo che ha acquisito le competenze della vecchia sede regionale della Bbc. Oggi, rispetto all'inizio degli anni Novanta, quando muoveva i primi passi, al-Jazeera è un colosso mondiale del'informazione. In arabo, in inglese, ma con mille altre sedi 'regionali' pronte alla nascita. Un canale televisivo che è diventato opinion maker, sposando fin dalle prime ore la causa dei ribelli.

Anche in modo non troppo accurato, a volte. Si sprecano - tutte con il medesimo schema - le breaking news del canale che lanciavano 'migliaia di morti' e 'fosse comuni' in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e tanti altri. Notizie non verificate, spesso citando anonimi testimoni oculari, molte delle quali si sono rivelate anche false. Ma una cassa di risonanza immensa, dal Marocco all'Estremo Oriente e ormai anche nella vecchia Europa. Quando qualcuno studierà la 'rivoluzione araba' dovrà, per forza, studiare anche l'impatto di al-Jazeera - e delle sue scelte editoriali - sulla massa dei suoi telespettatori.

Christian Elia


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